Phnom Penh

Uno strano silenzio avvolge la città di Phnom Penh. Il centro è un brulicare di persone, motorini e (a differenza del Vietnam) di macchine, eppure sembra essere tutto sottotono, sommesso… qui la gente non ha l’abitudine di urlare, né di suonare i clacson ad ogni battito del cuore, ma e più probabile che la ragione sia da cercare nella caduta del sanguinoso regime dei Khmer rossi, soltanto quarant’anni fa.

Eventi del genere sono ferite che non si rimarginano mai completamente e i processi per crimini contro l’umanità sono tutt’ora in corso. La cicatrice è quello strano rumore… come di un urlo soffocato da un cuscino, quella pressione acustica che rende tutto così malinconico ed inquietante. Solo un’altra città è riuscita in passato a darmi la stessa sensazione: Osvienčim, ma in tedesco la chiamano Auschwitz.

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Qualcuno mi ha spiegato che quando Pol Pot era ancora solo un perseguitato politico si era nascosto nelle campagne dove fu colpito dalla vita semplice dei contadini. Quando prese il potere, al termine della guerra civile, decise però che TUTTI dovessero essere contadini e chi aveva sempre vissuto in città ed era istruito era di conseguenza un cancro per la società. Quando fece evacuare la capitale, Phnom Penh appunto, ci fu un movimento di qualcosa come due milioni e mezzo di persone.

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Passeggio per la città alla ricerca di qualcosa da ricordare per quando sarò andato via. Il centro è un susseguirsi di palazzi in stile coloniale, folle di gente ferma ai semafori e gli immancabili tuk-tuk. Un autista sta appoggiato al suo fumando una sigaretta, ha una camicia di cotone grezzo ed un cappello da signore d’altri tempi, posto come se fosse un italiano della Little Italy newyorkese del dopoguerra, o Rocky. Fate voi. Provo a scattargli una foto, ma una signora dall’altra parte della strada lo avverte del grande pericolo in cui incombe (sono ovviamente una spia) e perdo l’occasione. La città è territorio ostile. Non che la gente sia maleducata, ma c’è una diffidenza generalizzata che a volte riesce a farmi sentire a disagio.

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Mi siedo in un posto qualunque e bevo una tazza di caffè cambogiano: un intruglio che ricorda l’acqua sporca, con un deposito di macina sul fondo (oh, quanto mi manca quello vietnamita). Mi collego al wi-fi e un’amica, Giuliana, mi scrive dall’Europa chiedendo se posso procurarle un vinile di Ros Sereysothea, Pan Ron o Yol Aularong, tutta musica degli anni ’60. Leggo si Wikipedia che Ros Sereysothea è sparita durante la rivoluzione, perseguitata e probabilmente giustiziata dai Khmer rossi. In una nazione dove la gente veniva fucilata solo per portare gli occhiali da vista non so quanto riuscirò a trovare un vinile di musica influenzata dall’occidente, ma sono così a corto di stimoli ed idee su come svoltare la giornata ache decido di provarci lo stesso.

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Faccio un giro al mercato Orussey, dove fatico a far capire anche solo la parola vinile. Mostro una fotografia sul mio cellulare e qualcuno mi indica un’area del mercato dove vendono cd, impianti stereo e gadget elettronici. Nessuno dei negozianti ha mai sentito parlare di Ros Sereysothea, ma mi dicono di provare nei negozi di antiquariato nei pressi del Palazzo Reale.
Dopo una mezz’ora a piedi trovo la strada giusta e provo a parlare con un negoziante. Sembra alquanto sorpreso di essere approcciato da uno straniero, ma credo sia solo un modo di nascondere la sua curiosità; questa volta vengo dirottato al mercato ‘Russo’ (Phsar Tuol Tom Pong).

La ricerca si trasforma in una caccia al tesoro.

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Visito una serie di Mercati l’uno dopo l’altro… formicai che si assomigliano un po’ tutti, soprattutto per la massa di merce dalla dubbia qualità che trabocca e sta appesa fuori dai chioschi come incrostazioni marine. La maggior parte delle ‘botteghe’ sono sostanzialmente delle nicchie grandi quanto una cabina telefonica e con l’unica funzione di tenere il proprietario fuori dallo stretto corridoio destinato ai passanti. Ogni mercato ha un suo ordine e in ognuno di questi c’è un’area per i gioiellieri, una per i vestiti, per il cibo, l’elettronica e così via.
C’è praticamente tutto tranne quello che sto cercando io.

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Mi perdo in un piccolo quartiere compresso tra due mercati (seembra di stare a Napoli, ma senza le rivoltelle) e mi imbatto nel barbiere ambulante più distinto che abbia mai visto. Ha una sedia imbottita di pelle rossa ed un mobile in legno sormontato da uno specchio incorniciato. Ha appeso sul muro alcuni ritagli di giornali e un gancio per il grembiule, trasformando quella porzione di marciapiede in un negozio vero e proprio. Sta tagliando i capelli ad un bambino con la mamma in piedi di fianco a loro ed io penso all’ennesimo scatto che mi sto perdendo per il mio rifiuto di puntare la macchina fotografica in faccia alla gente. Stavolta però mi fermo e chiedo a tutti se posso fare una fotografia. La signora fa finta di non capire, ma non rinuncio e chiedo ancora. Sollevo la reflex e scatto una foto che più la riguardo più sono contento di essermi ostinato a farla.

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Attraverso il quartiere e visito l’ennesimo mercato. Il fantomatico vinile di Ros Sereysothea è la carota che mi tiene in moto per tutta la giornata. Soltanto quando ormai ho visitato un numero imprecisato di negozi di musica mi viene l’idea di provare on-line, dove mi arrendo all’evidenza: i vinili cambogiani sono materiale da collezionisti.

My mission was impossible, I was a fool for even trying. The only vinyl records from that era were either in government libraries or in the homes of elderly people related to the Pol Pot regime. Some people used to copy their records to cassette in order and sell them in markets, but that as a foreigner, I stood little chance of finding these second-hand tapes. […] For three humid hours, I visited a series of all-in-one electronics stores, acting as if I was searching for the Loch Ness Monster in a tropical jungle.

Mass Appeal

A suo modo la giornata è stata abbastanza avventurosa. Mi ha stupito la differenza tra Phnom Penh e qualsiasi altra Città vietnamita, dandomi la possibilità di capire quanto Paesi così vicini e da una storia in comune restino comunque molto diversi tra loro in ogni minimo dettaglio. L’unica costante del sud-est asiatico è la coca-cola.

Molti backpacker sono convinti che Phnom Penh non abbia molto da offrire se non un po’ di architettura coloniale. Molti la visitano giusto per il tempo di completare l’escursione ai Killing Fields o l’angosciante museo S-21. La capitale effettivamente è un po’ sottotono, ma vale la pena di visitarla se si vuole capire meglio la cultura cambogiana, muovendosi in un contesto relativamente poco turistico e quindi più genuino.

Daniele Sepe – La historia es nuestra, y los hacen los pueblos

Angkor Wat

Era dai tempi di Mortal Kombat che volevo andare ad Angkor Wat, o era Tekken 3… Tomb Raiden? Boh, chissenefrega, l’importante è essere sopravvissuti alle zanzare di Ko Rong (mi sto ancora grattando senza ritegno).

Il complesso dei tempi è qualche chilometro fuori da Siam Reap. Quello che mi aspettavo essere un villaggio affollato di monaci buddisti è in realtà una città a tutti gli effetti, con tanto di quartiere baraonda in stile Khao San Rd di Bangkok, solo che questa si chiama Street 08. Il locale più gettonato è il Temple Club, ma anche no, grazie. Oltre agli happy menu (dove happy sta ovviamente per marijuana) ed un ristorante dove si possono mangiare insetti non c’è davvero molto da fare in città a parte ovviamente visitare il gigantesco parco archeologico di Angkor.

Mi accontento.

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Noleggio una mountain bike per cinque dollari e percorro la Angkor River Road fino al tempio. È una bella giornata calda e soleggiata e la strada in realtà un sentiero in terra battuta che meno male che ho la mountain bike. Mi perdo un paio di volte, poi sbuco alle spalle del tempio. Faccio il giro ed arrivo all’ingresso dove mi chiedono il biglietto…
« ahem, non ce l’ho il biglietto, me lo devi vendere tu. »
« No, noi i biglietti non li vendiamo, devi andare alla biglietteria. »
« Ok… e dov’è la biglietteria? » (è la conversazione dell’anno)
« La biglietteria è in città. »

…in città??

Un paio di autisti degli stramaledetti tuk-tuk fiutano l’affare e mi invitano a non perdere un altro litro di sudore e insistono di farmi accompagnare comodamente da loro. Protesto, bestemmio satana e la madonna (per par condicio), infine mi rimetto in sella e nella delusione generale torno indietro da solo, stavolta per la strada principale (Charles De Gaulle). Qui scopro che se l’avessi percorsa all’andata sarei stato fermato almeno un paio di volte per farmi controllare il biglietto e non avrei sprecato tutto questo tempo (il parco è un complesso di dieci chilometri quadrati, non esiste un ingresso vero e proprio).

Percorro buona parte del viale trainato ad una specie di motocicletta con rimorchio, riprendo fiato e faccio le faccine buffe ad una bambina seduta sul retro per meritarmi il passaggio. Mollo il furgoncino, sterzo, mi aggrappo ad un altro furgoncino ed arrivo alla stramaledetta biglietteria. Qui mi fanno una foto e la stampano sul mio biglietto valido 3 giorni. Una cosina come 62 dollari. Pedalando, torno all’ingresso del tempio e sfodero trionfante il mio costoso e agognato pezzo di carta.

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Un ponte di blocchi di plastica interconnessi permette l’attraversamento del fossato inondato. Sono in pratica grosse taniche galleggianti e mi diverto a saltare rimbalzando da un blocco all’altro. Oltre le mura e le solite scimmiette c’è una quantità di turisti distribuiti in modo abbastanza omogeneo e le cupole del tempio sullo sfondo.

Mi immetto sul viale principale, entro nel tempio e cerco di capire come orientarmi. Due locali posti in serie introducono alla struttura, danno accesso ad una serie di corridoi che corrono lungo il perimetro esterno ed ad alcuni cortili interni che credo fossero fontane.

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Imbocco il corridoio e scopro una lunghissima scena di guerra scolpita nella parete in forma di bassorilievo. Alcune figure sono ancora levigate e lucide e con dei residui di colore. La battaglia ritrae un gran numero di soldati, strani animale, eroi e nemici sopraffatti. Metto su le cuffie e faccio partire la mia playlist Honda Kerouac (RIP), scatto un gigaglione di fotografie ai bassorilievi e lascio che il buon umore prenda il sopravvento.

Il tempio è interessante, ma decisamente meno suggestivo di quanto immaginassi. Non c’è la giungla che s’impadronisce e crepa i muri delle rovine… è tutto così in ordine e noioso. Ho ancora molti posti da visitare, non mi demoralizzo.

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All’uscita del tempio, un ragazzino mi si avvicina mentre sto slegando la bicicletta e mi offre un ananas già sbucciato per mezzo dollaro. Gli dico di no e lui comincia a lagnarsi…

« uhhhhhh, signoreeeee, compra ananas solo mezzo dollaroooo, uhhhhh… »

Non attacca bambino, appioppa il pippone ad altri turisti… o turiste? Magari l’istinto materno con loro attacca. Il bambino ride contento, poi però mi fissa di nuovo e ricomincia a lagnarsi…

« uhhhhh, compra ananas solo mezzo dollaroooo, uhhhhh… »

Oh, ma che sei scemo? Mi hai appena riso, sei un pessimo attore! Ve bene bambino, eccoti il mezzo dollaro, hai vinto tu.
Procediamo allo scambio, il bambino s’infila i soldi in tasca e invece di andarsene adesso mi mostra delle cartoline del tempio e… no, adesso te ne devi proprio andare.

Infilo l’ananas nella tasca esterna del mio zaino (l’ananas è in una bustina trasparente) e pedalo verso Pre Rup, da dove a quanto pare il tramonto sia particolarmente bello da vedere… però non ho fatto ancora una foto alle scimmiette. Ne scorgo un gruppetto poco più avanti sul ciglio della strada di fronte ad un parcheggio. Scendo dalla bicicletta e mi chino a fotografarne una, quando ecco che un’altra mi scivola dietro e sfila l’ananas dallo zaino! Scatto per riprendermelo, ma lei è troppo veloce e balza all’indietro di pochi metri. L’ananas è ancora protetto dalla busta ed io mi sono appena dovuto sorbire il teatrino di un mocciosetto per dieci minuti per quello. Scatto di nuovo in avanti con le braccia aperte per apparire più grosso e spaventare la scimmietta… il branco non la prende bene: un muro di cinque o sei scimmiette incazzatissime si materializza tra me e la scimmietta con l’ananas e mi mostra i denti in assetto da guerra. Urlano la loro minaccia ed avanzano afferrandomi il polpaccio per un paio di volte.

Merda, merda, merda… mi sgonfio ed indietreggio con grandissima cautela. Cinquanta centesimi di ananas non valgono un morso di una scimmia che come minimo mi passa la rabbia.
Cammino a ritroso per un paio di metri, poi per miracolo le scimmiette mi lasciano andare via. Mi volto e incrocio lo sguardo con una guardia del parco che ha guardato la scena allibita. Solleva un dito e mi dice serio.

« attento alle scimmie »

…e grazie al cazzo, me lo potevi dire prima.

Torno in sella e pedalo verso il tempio di Prae Roup. A quanto pare uno è dei posti migliori per vedere il tramonto, insieme al Phnom Bakheng.

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Ci metto un po’ ad arrivare, forse ho solo le gambe un po’ molli per colpa delle scimmiette. Comunque sia, costeggio il fossato di Angkor Wat, pedalo lungo il bacino artificiale di Srah Srang ed arrivo al tempio giusto in tempo per visitarlo prima che il giorno finisca. Non che ci sia molto da vedere… persino il tramonto non vale un gran che, dato che un grosso albero impedisce di vederlo. L’unica cosa degna di nota è la vista della giungla. Scatto una foto, torno a Srah Srang e decido di fermarmi qui.
Godermi il tramonto è un’impresa. Appena mi fermo vengo circondato da un gruppetto di ragazzini che mi vogliono vendere di tutto… magneti da frigorifero, flauti stonati… ad ogni no ecco che mi viene proposto un nuovo oggetto. Non voglio niente, no… no… fino a quando una bambina dice la parola magica.

« Birra? »

Gli altri bambini non ci stanno, vogliono spremermi un dollaro anche loro, ma sono stremato e gli rispondo secco che adesso se ne devono andare. Mi guardano delusi ed intristiti (ma ormai lo so che è tutta scena) e finalmente se ne vanno via.

Mi sistemo su una roccia, do un sorso alla mia birra e mi do uno schiaffetto alla nuca: Zanzare. Porca madonna, oggi non c’è davvero pace.

Faccio un respiro profondo, svuoto la mente e mi concentro su dove ho la fortuna di trovarmi, dopotutto. Ripenso alla corsa lungo lo sterrato fino al tempio, i lunghi corridoi scolpiti, fino alla libertà di quelli che sono ormai quasi due mesi in viaggio per conto mio. Do un altro sorso alla birra…

Angkot Wat, check.

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CANZONE DEL GIORNO: Cygnus… Vismund Cygnus – The Mars Volta

Koh Rong jungle path

Mhh, this doesn’t look like a trail anymore. I guess I just got lost in the effing jungle. My sole intention was going to the other side of hill, then towards my cabin in the wood to get some serious sleep.
Maybe I’ll step onto a snake or on one of those huge spider that gives you paralyses in a fistful of seconds and then kill you.
No way I get lost in this stupid woods. I walk back, lie on a random hammock and take a nap to sober up a bit.
Here on the island of Koh Rong it’s kinda warm also at night, with the only con of clouds of mosquitos biting restlessly day and night. I don’t hear then buzzing around, just the random sting somewhere below where my legs are.

Jez, this hammock is so uncomfortable. The humidity coming from the sea mixes up with the mosquito repellent on my skin, making me feel sticky and toxic. Ok, let’s try again the path, maybe this time I’ll find a way through the jungle.

I cross a small group of people… maybe they know the way? I say hi to the one closer to me and I ask:

« Do you know how to go to the 4K beach? »
« what? »
« My cabin is at Suns of Beaches, it’s beyond the 4K beach »
« Oh my god! Yes, I know the place… it’s so fucking far! »
« Yeah, I know… do you know how to go past the jungle? »
« Shit, wait, I ask my friend, he knows better »
She waves to a guy, then tells him the place I need to go back to
« Oh my god, it’s so fucking far! » He says.
« I knooooooow, but maaaaybe you know how to go through the jungle?! »
« Oh, yeah… just go straight, man! You gotta walk for at least one hour and get in the water up to your hips! »
He freezes, thoughtful, then reaches his conclusion:
« Oh my god, It’s so fucking far! »

You, useless pieces of flesh. I asked you the way, not to tell me how fucking far it is, I know that!
I wave a hand while mumbling a rude goodbye and I keep going, right through the last bungalow resort on the beach and once again into the jungle.

Ok, I got lost again. I’ll never get out of here. Also, it’s getting way too Blair Witch Project for me right now. What the girl said it was mixed with that chocolate bar she gave me before? I don’t remember (or maybe you don’t need to know if you don’t get it already), anyway I really don’t want to lie down any longer in a stupid hammock just to wake up all contort. Maybe I can break in one of the empty bungalows and save myself from the mosquitos army, but all doors have locks.
I’m standing in the porch of one of the bungalows when I decide that from now on I don’t care about anything anymore.
I grab a big pillow from a round bamboo armchair and I use it as a mattress. At this time I can just wait for the daylight to find the way back.
I wake up in the darkness from time to time. I spray myself with some more mosquito repellant, then I get back to sleep.

Slowly, after dozen of bites per foot, the morning comes. The stupid path was flooded, of course I couldn’t see it! and I was ssssso close to the 4K beach!

I try to enjoy the sunrise, an blinding orange disc floating above the sea horizon, shiny waves and countless dragonflies, but the tiredness doesn’t let me. Too many thoughts. Too much anxiety. I need a shower, I need to poop and to sleep at least until the afternoon.

Yesterday-a-guy-got-lost-twice-in-the-jungle-and-ended-up-sleeping-like-a-homeless is the story of the day, here at the budget beach resort.

So fuckin’ funny.

 
SONG OF THE DAY: You oughta know, by Alanis Morissette

Daem Thkov Village

Ci sono una quantità di posti dove dormire a Koh Rong, ognuno con la sua caratteristica unica. Quella di Inn the Village è essere l’unico ostello in un piccolissimo villaggio di pescatori all’estremità est dell’isola, altrimenti abitata nel piccolo centro turistico sviluppatosi attorno al molo del traghetto che collega a Sihanoukville.

Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum

Ad essere brutalmente onesti, il villaggio è una baraccopoli fatiscente che più si avvicina alla definizione di discarica. I pescatori hanno l’abitudine di trattare il mare come un bidone della spazzatura gettando fuoribordo bottiglie di plastica, reti da pesca strappate, scarpe, circuiti fulminati. La roba che non fa a fondo viene trasportata dalla corrente fino al villaggio, si riversa sulla riva e al di sotto le baracche sospese sull’acqua come palafitte.

Non che mi aspettassi un’atmosfera da resort e quel che vedo è semplicemente la realtà di un popolo poverissimo (anche in un’isola turistica come questa), ma non mi sarei accampato in un posto come questo se fossi stato sulla terraferma.
Questa insomma è stata la mia prima impressione del villaggio di Daem Thkov, tecnicamente corretta, ma anche piuttosto maldestra e superficiale. Il villaggio ha di più da offrire dell’immondizia e di un pugno in faccia.

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Ieri sera, passeggiando* per il villaggio, un tizio ha invitato me e altri due backpacker nella sua baracca in mattone, ma senza elettricità e ci ha offerto da bere. Siamo restati a sorseggiare birra al buio con lui che provava a dirci che si sarebbe trattenuto al villaggio solo per qualche mese per fare un po’ di riparazioni e portare dei soldi a casa, a Phnom Pehn. Non conosceva nessuno e sembrava un po’ solo. La backpacker australiana, Amy, chiacchierando del più e del meno finisce per dirgli che da lei, a Melbourne, le sigarette costano qualcosa come quaranta dollari al pacchetto, roba da scioccare anche me. Il tizio non capisce subito così io converto la cifra in Riel cambogiani (160.000 KHR). Lui dapprima resta stupefatto, poi ride divertito. Qui le sigarette costano tremila Riel.
Quando torniamo all’ostello Rick, il gestore, convince tutti a giocare a werewolf e la serata finisce alla buona.

L’indomani (cioè stamattina) mi sveglio quando è ancora presto (almeno per i miei standard). Faccio una doccia versandomi addosso secchi d’acqua gelata e mi lavo i denti sporto dalla finestra del bungalow.
Non so che fare, ma di certo non ho voglia di sprecare la mattina a ritoccare le foto. Prendo la macchina fotografica e decido di esplorare il villaggio. D’altronde sono venuto qui per questo.

monkey koh rong, cambodia

Passeggio sul molo e mi fermo a giocare con una scimmietta legata alla veranda di una baracca. Poveretta… mi dispiace che debba vivere così, almeno le faccio un po’ di compagnia. La scimmietta mi spulcia le gambe (rendendomi cosciente del mio corpo villoso), si arrampica sui miei vestiti, grida e salta via.

Ok, me la voglio portare a casa.

monkey koh rong cambodia

Gioco con la scimmietta per una mezz’ora, quando una ragazzina mi si avvicina sorridente. Vuole vedere la mia macchina fotografica. Non è insistente, solo interessata. Ci penso un po’ e decido di fidarmi. Le faccio indossare la tracolla e le insegno come scattare una foto. Impara anche qual’è il bottone per visualizzare l’ultimo scatto.
Lei fa la sua prima foto, la rivede nel piccolo schermo della reflex e mi guarda come se nessun bambino al mondo fosse mai stato più felice di lei.

Mi sciolgo.

Little girl Daem Thkov inn the Village villaggio Koh Rong island isola ilha Cambodia Cambogia reflex canon DSLr

smile, you're being recorded koh rong inn the village

Arrivano altri due bambini e il molo si trasforma in una festa. Il più piccolo peserà, non so… dieci chili? Lo sollevo, lo faccio volare e lui grida divertito. Salto, corro, faccio le piroette con lui sulla schiena… un rodeo, poi lo metto giù. Anche l’altra bambina (forse la sorella) vuole essere fatta volare ed io capisco di aver appena commesso un grande, grandissimo errore.

Playgin with kids kid boy flying carrying around Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum

Giochiamo così per quella che mi sembra un’eternità. Mi diverto un mondo, ma sto sudando come un animale. La prima bambina almeno è ancora presa dalla macchina fotografica e non solo non è interessata ad essere sballonzolata in tutte le direzioni, ma scatta una foto dopo l’altra di me che gioco con gli altri bambini. Insomma, win-win.

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Non mi sento più le braccia. I bambini vogliono saltare ancora… e ancora. Gli faccio capire che sono stanco, ma se ne fregano. Per miracolo la scimmietta si rianima e i bambini dirottano il divertimento su di lei.

Playing kids kid boy flying carrying around Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum monkey scimmia scimmietta

Sono passate ore da quando sono uscito a fare quella che doveva essere una breve passeggiata mattutina, ma adesso che è arrivato il momento di tornare all’ostello non ne ho voglia. Vorrei restare a giocare ancora un po’. Faccio un ritratto alla bambina-fotografa (se potessi l’adotterei a distanza) e mi strappo dalla situazione.

All’ostello racconto della mia mattina. Rick, mi spiega che la bambina-fotografa è figlia di alcuni vietnamiti trapiantati sull’isola e non parla una parola di Khmer. Secondo lui soffre di un disturbo dell’apprendimento, ma non direi, almeno non a giudicare da quanto ci ha messo a imparare a usare la mia macchina fotografica. Mi si spezza il cuore a pensare alla totale mancanza di opportunità che affligge questa gente, non solo i bambini. Man mano che Rick mi parla del villaggio e racconta più storie cerco di immaginare un modo per aiutare concretamente questa gente in modo duraturo, ma non riesco a pensare a niente.

Qui mancano le nozioni base di igiene, l’istruzione e chissà cos’altro. Oltretutto non ho l’impressione che la gente sia molto interessata ad aiutarsi a vicenda, anzi… avverto una diffidenza generalizzata anche tra di loro, un cancro che pensavo fosse un’esclusiva delle nazioni industrializzate e iper-digitalizzate del primo mondo.

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La Cambogia sta ancora rimarginando le profonde ferite inflitte dalla dittatura Khmer, finita solo negli anni settanta e così recente che i processi per crimini contro l’umanità sono ancora in corso. Proprio in questi giorni è arrivata la notizia che il primo ministro cambogiano (in carica da più di trent’anni) ha ordinato la dissoluzione del partito di opposizione, colpevole di essere diventato troppo popolare.

Più passa il tempo più mi convinco quanto l’inglese come lingua internazionale sia un patrimonio dell’umanità. Il primo passo per ogni processo di emancipazione passa per la consapevolezza della propria condizione e il contatto con realtà diverse non può che favorirlo.

Lo sapeva bene Pol Pot.

FRASE DEL GIORNO: មានម្នកណាចេះភាសាអង់គ្លេសទេ ?

Hanoi – Saigon

Ordino un caffè con ghiaccio e fumo un’altra sigaretta. Non dovrei, ma con tutto lo smog che ho nei polmoni credo sia il male minore e poi, hey, chissà che i fumi non si annullino a vicenda. Oltretutto qui le sigarette costano qualcosa come € 0.4 e che fai, non le compri?

Sono partito da Mui Ne il giorno prima di arrivare a Saigon, dormendo una notte a Vũng Tàu, un posto inutile che non vale la pena di raccontare. Nonostante la strada fosse parzialmente lungo la costa, a parte qualche pineta lungo il percorso, il viaggio è stato piuttosto monotono. Speravo in qualcosa di più entusiasmante per la mia ultima corsa in moto.

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Mi fermo a La Gi, mangio un Banh Mi (e dai, ormai dovreste saperlo cos’è) ed una birra. Me la serve un gruppo al tavolo di una bettola e mi offrono un po’ del loro cibo, così mi siedo con loro. Mastico per qualche secondo, poi sputo.

« cá? »

(pesce?) chiedo mortificato.

Annuiscono.

Gli faccio cenno di darmi un secondo. Tiro un sospiro e dallo zaino il biglietto dove mi sono fatto scrivere che sono intollerante al pesce.

« ohh » e mi passano un altra cosa.

Mastico, poi sputo di nuovo.

« cá??? »

Annuiscono.

Niente da fare. Gli mimo l’atto di mangiare, mi porto le mani alla gola e faccio finta di non riuscire a respirare.

Ridono.

Ok. Alzo la mia birra in lattina e scandisco « Một, hai, ba, dzô! » (un, due, tre, salute!). Ognuno alza la propria birra divertito. Faccio un brindisi ironico (in italiano) sul fatto che hanno appena provato ad uccidermi e me ne vado.

È già notte e della Luna ne è rimasto illuminato solo uno spicchio, così quando il bastardino nero mi taglia la strada lo vedo solo all’ultimo momento e così lui, che ha deciso di accellerare il passo finendomi proprio davanti. Lo centro in pieno a cinquanta all’ora, sbando, ma resto in piedi sulla moto e freno almeno una decina di metri dopo. Oh, cazzo… l’ho colpito davvero forte.
« Stupido, stupido cane! » blatero scioccato. Torno indietro e la povera bestiola adesso è a pancia in su in mezzo alla strada, mentre mugola impazzita. Una macchina gli passa sopra (senza schiacciarla) e due ragazzini che hanno assistito alla scena mi mimano l’incidente divertiti.
Come in un flash, ricordo improvvisamente la storia che mi ha raccontato, forse solo qualche giorno prima, un altro backpacker che era nella stessa situazione. Lui alla fine decise di uccidere il cane e nel modo più veloce ed indolore… ma non mi va di fracassare il cranio di un cane… forse potrei strozzarlo?
In uno scatto adrenalinico, il cane si soleva e corre via torto, perdendosi nel buio oltre il ciglio della strada. Meglio così. Quando gli scenderà l’adrenalina non credo sarà più in grado di muoversi. Probabilmente morirà di emorragia interna.
Riprendo la corsa in silenzio ed arrivo a Vũng Tàu un paio d’ore più tardi.

Il giorno dopo, insieme ad Andrea-dalla-Svizzera, parto per Saigon (rinominata Ho Chi Minh City dopo la guerra contro gli Stati Uniti) lungo la QL51, una strada pazzesca, piena di camion. Il vento fa scorrere la sabbia sull’asfalto come la luce sul fondo di una piscina. Devo guidare con gli occhi a fessura e mi chiedo se è per questo motivo che gli asiatici si sono evoluti gli occhi a mandorla (ha ha ha, ok.).

Svoltiamo verso l’isola Đảo Long Sơn, ma ci salviamo per una sola mezz’ora… non c’è scampo. Percorriamo di nuovo questa strada pazzesca per almeno un’ora, poi trovo un’altra uscita che porta fino al fiume. Non ho internet per controllare, così semplicemente spero in un battello… una chiatta… Huckleberry Finn su una serie di tronchi legati insieme, per portarmi dall’altra parte.

La leva del cambio della moto di Andrea si rompe e per fortuna è bloccata sulla prima, così almeno possiamo muoverci. Perdiamo una buona mezz’ora guidando quasi a passo d’uomo e fino ad un villaggio, in cerca di un’officina. Quando la troviamo, il meccanico infila un pezzo di plastica nel perno, lo batte dentro con un martello e zak! la moto funziona di nuovo.

Io li amo i meccanici vietnamiti.

Arriviamo al fiume al tramonto e il traghetto c’è per davvero! 3000 VND (€ 0.1) per passare dall’altra parte.

Io li amo i traghetti vietnamiti.

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Se la QL51 mi aveva scioccato, questa non è comunque nulla in confronto con il traffico verso Saigon, dove macchine, motorini e camion col rimorchio confluiscono disordinatamente in strade troppo strette e snodi regnati dall’anarchia. Una nube di polvere e gomma si solleva dall’asfalto ed oscura il cielo. Le luci del riflettori delle macchine si riflettono su milioni di particelle tossiche in sospensione, colorando l’aria di giallo e qualcuno vende cibo sul bordo della strada. La sensazione di essere approdati improvvisamente all’inferno non è affatto esagerata.
Dovrebbero introdurre una nota sulla patente di chiunque sia sopravvissuto a queste strade. Che ne so, una patente B-trattino-Saigon, o cose così. Ho già scritto alla motorizzazione.

È un’esperienza distopica. Mi perdo facilmente nella fantasia di guidare verso la Los Angeles di Blade Runner, e poco ci manca che le macchine qui volino per davvero! Basta! Non ne posso più di stare col culo su una moto.
Insomma, adesso si che ho voglia di venderla… beh, più o meno.

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Trovo un acquirente del giro di ventiquattr’ore. Un ragazzo australiano che non ha la benché minima idea di come si guidi una moto manuale (e se mi stai leggendo, scusa, ma è vero). Me lo porto dietro per una decina di minuti, poi lo lascio provare di nuovo. Niente da fare. Sento che non dovrei dargli la moto, un po’ per via del suo improponibile piano di arrivare ad Hanoi in 2 settimane, un po’ perché speravo in un proprietario migliore per la mia #hondakerouac, ma anche ‘sticazzi. Voglio andare in Cambogia e lui ha i contanti pronti.

Chissà se è ancora vivo.

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Ma passiamo ai numeri, la ragione per la quale ho tenuto un taccuino di viaggio:


940.000 VND / € 35 benzina
340.000 VND / € 13 olio
1.305.000 VND / € 49 riparazioni
80.000 VND / € 3 lavaggi
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2.665.000 VND / € 100

Ho comprato la moto per 5.800.000 VND / € 215 e rivenduta a 6.300.000 VND / € 235

Insomma, per farla breve, l’avventura di viaggiare in moto per più di un mese mi è costata…. 80 euro.

Ok, non ho contato il costo d’imbarco della moto sul traghetto per Cat Ba, Ly Son ed un paio di chiatte per passare questo o quel fiume, ma stiamo parlando di spiccioli, nemmeno dieci euro.

Toh’, facciamo 90 euro.

2000 km d’asfalto, strade da paura (in tutti i sensi), un cane ed un australiano morto ed un bel mic drop per me.

Scusami cane, ma è stata anche colpa tua.

 
PAROLA DEL GIORNO (VN): Tạm Biệt (bye bye)

banh mi joint

I’m not quite sure I should call this a dinner… I guess it was the one I had at sunset? Anyway I was hungry again and decided for a Bánh mì, the vietnamese sandwich with beef, cucumber, carrots and garlic sauce.
The girl that served it to me now sits with a hand on her forehead and eyes. Maybe she’s making some math in her head, or she’s just tired. The hand moves and we make a brief eye contact. I look away and observe the rest of the scene. On the other side of the room, a fatty little girl is staring at her smartphone.
With my eyes I go back to the first girl. Actually there’s another one sat at her table. She’s eating a passion fruit juice with a spoon, dipping the spoon flat on the surface of her drink, so to fill it with pulp and no seeds. I don’t like passion fruit seeds either.
A young guy shows up. He says something that gets completely ignored, so he sits at the table and checks his tablet.
In the middle of the scene, an altar placed on the floor is blinking like a christmas tree. It is supposed to bring good luck, so they say.
A second altar is placed on top of the backdoor, a full-figure of a person in state of bliss with a multitude of LED rays of light running from behind his head.

This place has no quality.

The young guy stands up and disappear behind the backdoor. The little girl is still trying to eat the pulp of her juice. I press the cigarette butt against the empty plate and I leave without saying goodbye.

 
WORD OF THE DAY: Brazen (bold and without shame)

Mũi Né

Quando sono partito da Hanoi un mese fa (ed iniziato il viaggio in Vietnam) ho comprato un taccuino e segnato ogni spesa legata alla motocicletta: benzina, riparazioni, migliorie e cambi d’olio. Oggi alla stazione di benzina appena fuori Mũi Né mi sono reso conto di non averlo aperto da un po’ di tempo. Ho passato più di una settimana a Mũi Né, la mecca dei kite-surfer; col pieno ho potuto calcolare d’aver percorso circa 200 chilometri sul suo lungo mare, che ne misura circa circa dieci.

Mũi Né è stata una vacanza dentro la vacanza.

Ho cambiato quattro ostelli in otto giorni… così, tanto per non perdere l’abitudine a fare lo zaino, ed è proprio tramite gli ostelli che riesco ancora a tenere a mente tutto quello che è successo: questa settimana a Mũi Né è sembrata durare un mese.

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Le prime due notti le ho passate in un resort sulla spiaggia dove ho incontrato di nuovo Jimm e Isabelle, i due ciclisti che ho conosciuto a Bai Xep e continuo ad incontrare lungo il percorso. Questo è un aspetto del viaggio a cui non avevo nemmeno immaginato: la maggior parte dei backpacker visita e dorme negli stessi posti al punto che ormai non mi sorprendendo più quando trovo facce conosciute entrando in un nuovo ostello dopo un giorno passato in motocicletta.

Con Jimm e Isabelle però è diverso: siamo restati in contatto tramite internet e ci siamo dati appuntamento al resort.

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Passiamo un giorno intero a mangiare e perdere tempo sulla spiaggia. Passeggio con Isabelle lungo la riva ed incrociamo una mandria di vacche. Isabelle cerca di avvicinarsi ad un vitello per accarezzarlo, facendole allontanere tutte, poi decide di tornare indietro (Isabelle, non il vitello). Continuo da solo fino alla scogliera, mi arrampico e scopro un paesaggio verde e collinoso proprio a ridosso della spiaggia. Quando torno indietro tutti sono in acqua che provano a surfare. Una volta rientrati in spiaggia io e André (il primo da sinistra nella prima foto) convinciamo Jimm e Isabelle a fare da passeggeri sulle nostre moto per andare a vedere il tramonto dalle dune insieme, a venti chilometri di distanza.

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Ci mettiamo tutti in sella e, boh… sarà che sono uno spericolato, ma mi perdo la seconda moto nell’arco di nemmeno dieci minuti. Isabelle continua a chiedere dov’è che sono finiti ed io essenzialmente me ne frego, perché il Sole non aspetta loro per tramontare e io non ho la minima intenzione di fare tutta questa strada un’altra volta. Sono un po’ egoista, sono un’ po venti chilometri moltiplicati per quattro, ad ogni modo, per quanto mi piaccia avere compagnia, sto viaggiando da solo e non mi va di limitarmi per via di un altro backpacker che non ce la fa a starmi dietro.

Le dune sono una figata, soprattutto adesso che il sole è tramontato e ne arriva solo la luce di riverbero. Ci sono un sacco di dune buggy che scorrazzano su e giù le montagne di sabbia ed io vorrei aver portato una tavola per fare surfboarding in picchiata dalla cima. Comunque sia, la luce va via in fretta e in meno di un’ora, credo, siamo già sulla strada del ritorno.

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Tornati all’ostello facciamo due scoperte… André aveva dimenticato di fare il pieno e la moto si è fermata per strada. Un altro motociclista li ha spinti verso il primo benzinaio, ma era ormai troppo tardi e sono tornati indietro. La seconda e più importante notizia è che ci siamo avventurati incoscientemente lungo la strada più pericolosa del Vietnam e non parlo delle caprette in mezzo alla strada o dei perenni lavori in corso subito dietro ogni curva: a Mui Ne la polizia sta in agguato proprio lungo la strada verso le dune e ferma e sequestra le moto ai backpacker senza pensarci due volte.
Molti turisti guidano senza patente internazionale (me incluso) e per legge scatta il sequestro del mezzo per una settimana ed una multa di 1.200.000 dong (circa 50 euro). A quanto pare non accettano nemmeno una mazzetta per lasciarti andare… dove andremo a finire?!
La nostra fortuna è stata essercela presa comoda e percorrerla a fine giornata quando il far-west era già finito.

Non mi piace l’idea di non poter usare la moto ed essere sostanzialmente bloccato in questo resort (lo so, sono uno snob). Preparo lo zaino e decido di lasciarlo il giorno dopo entro le 8, cioè quando la polizia sarò in strada. Mi sposto al Packpacker Village, dove mi incontro con Andrea la Svizzera. ma si, quella che avevo seminato a Sa Ky! (ahem)
Siamo entrambi contenti di rivederci e celebriamo con una cena di scampi in una bettola sul lungomare. Il nuovo ostello però è un pacco. Forse sono capitato nel momento sbagliato (a volte capita che non ci sia vita anche in questi posti), ma insomma, l’unica cosa che ricordo è che mi hanno fatto pagare almeno la metà in più rispetto a qualsiasi altro posto dove sono stato a Mui Ne. Quando il giorno dopo mi dicono che devo cambiare letto gli rispondo che preferisco cambiare ostello.

Mi sposto al Mui Ne Hills ed è jackpot! Ci sto credo quattro notti a fare baldoria insieme ad Andrea che nel frattempo è tornata da Dalat e incontriamo una marea di gente, inclusi un gruppo di tedeschi simpatici (oh, esistono!) ed una ragazza di Hong Kong che ha mollato una carriera in architettura per fare gioielli. Passo le giornate a mangiare e spaparanzarmi in spiaggia e le notti a fare festa con gente a caso.

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Mentre cammino sulla spiaggia per digerire l’ennesimo pranzo a base di gamberetti e spaghetti di riso mi offrono una lezione di kite surf gratuita. Partecipo, ringrazio e mentre faccio per proseguire lungo la spiaggia uno dei tipi mi chiede bruscamente «hey, dove vai adesso?». Gli rispondo che voglio solo camminare e che, no, di certo non controllerò le altre scuole di kite surf. Percorro 500 metri e controllo un’altra scuola di kite surf.

Mi rendo conto che i prezzi sono davvero alti rispetto a quanto realmente mi freghi di fare kite surf e chiedo se sia possibile noleggiare una barca a vela tipo Laser. Niente da fare. Ordino una birra e mi trattento a parlare con i due istruttori, un ragazzetto francese che parla vietnamita ed un vietnamita che credo sia il capo della scuola (questo considerando la condiscendenza degli altri nei confronti dei suoi sproloqui).
Spostano un tavolo di plastica sulla sabbia e restiamo lì a chiacchierare e bere fino a quando il cielo non si riempie di stelle. Ad un certo punto uno di loro ricorda che si! c’è una scuola di vela poco prima dell’ingresso del centro abitato!

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Il pomeriggio del giorno dopo vado diretto alla scuola, convinco l’istruttore a noleggiarmi un RS Feva (l’equivalente inglese di un Laser 2000) e passo un’ora a planare sull’oceano zigzagando tra gli allevamenti di pesce. Il vento è così forte da risucchiare la barca controvento ogni volta che stringo la bolina. Dopo un’ora sono stremato, mi tremano le cosce per l’essere stato tutto quel tempo sporto dalla falchetta, ma sono al settimo cielo… erano dieci anni che non andavo in barca a vela.

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La vera Mui Ne è un paese di pescatori sul promontorio più ad est di quella successione di ostelli, alberghi, scuole di kite surf e ristoranti dove passo gran parte del mio tempo in coma alimentare o etilico, a seconda di che ore sono. La visito meglio appena fuori dalla scuola di surf.
Il cosiddetto ‘scenic point‘ è una passeggiata davanti al porto degna di un dipinto impressionista. Uno di quei posti che più li guardi più ti rendi conto di quanto siano belli.
L’ora di vela mi ha fatto venire una fame da lupi. Compro la cena da asporto e la mangio mentre guardo le barche attraccate nella cala. Quando cala la sera sono ancora lì a guardare il panorama. Le piccole luci di posizione dele barche adesso brillano a intermittenza nella notte.

Noto alcune luci all’estremità del villaggio. Google dice che c’è un tempio e mi domanco come sarà la vista da lì. Mi rimetto in sella ed attraverso il villaggio. Le strade si fanno improvvisamente strette e dissestate. Illumino dei ratti grossi come tacchini che al mio passaggio scappano in cerca di un rifugio. Arrivo al tempio e mi accorgo che la vista è deludente… è anche davvero buio qui al riparo dalle luci del villaggio. Cammino lungo la costa e mi stendo sull’erba a guardare il cielo stellato.

Passano un altro paio di giorni. Faccio sistemare la trasmissione della motocicletta, scopro un una manciata di posti nuovi e torno alla scuola di vela dove ormai sono di casa. Potrei stare a Mui Ne indefinitivamente… no, basta, domani parto! Al mattino sistemo lo zaino sulla moto e visito l’ultimo posto della lista: un canyon in miniatura scavato da un torrente che si riversa nell’oceano.

La terra che fa da argine è argillosa e friabile; il fiume l’erode e si tinge di rosso…

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Lungo il percorso ci sono una serie di bettole per mangiare. Mi fermo all’ultima appena oltre una piccola cascata. Prendo una noce di cocco e faccio amicizia con un paio di ragazze tedesche (mi rassegno ad trovarli dappertutto) che mi mostrano le loro macchine fotografiche analogiche e le invito a pranzo alla bettola che mi ha fatto conoscere Andrea. Prima di andarcene faccio un altro paio di foto: una ad un gruppo di bambini che giocano nel torrente, l’altra alla figlia della proprietaria del posto mentre fa finta di ignorarci aggrappata alla grata di una finestra.

kids playing bambini che giocano fairy stream Mui Ne Vietnam Viet Nam backpacking zaino in spalla explore exploring adventure avventura travelling travel south east asia southeast south east

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Mangio con le tedesche, perdiamo tempo e… niente, si resta fino a domani. Torno al mio ostello e mi dicono che stanotte sono al completo! Ma porc… Mui Ne Hill da questo non me l’aspettavo! L’ostello delle tedesche ha una singola libera all’equivalente 15 euro e li vale tutti. Peraltro su Agoda (un agguerrito concorrente di Hostelworld in Vietnam) la danno scontata, ma non riesco a prenotare senza l’app che non ho scaricato. Provo a collegarmi dove capita, ma non ci riesco proprio. Arrivo alla reception e…

« quanto costa la singola? »
« salve, [l’equvalente di] quindici euro »
« mhh, ma su Agoda la posso prenotare per dieci! » e mostro il mio cellulare.
Il proprietario mi guarda interdetto « e allora prenotala su Agoda… »
« si? ma Agoda poi prende la percentuale da te… cioè, io i dieci euro preferisco darli a te, così hai più guadagno »

Si, ho la faccia come il culo, comunque il tipo ci casca e mi da la singola a dieci euro: letto doppio e bagno privato. Esco di nuovo a fare serata e finisco a fare il bagno di notte, nudo e circondato dal plancton bioluminescente.

E questa è la metà di quello che fatto a Mui Ne.

 
LIBRO DEL GIORNO: 4 3 2 1, di Paul Auster

Dalat > Mũi Né

Con la discesa da Dalat verso Mũi Né mi sono definitavemente conto di quanto l’Hai Van Pass sia sopravvalutato. Carino, eh, ma scalare Dalat da Nha Trang e poi correre di nuovo a valle verso sud è ad un altro livello. Tutta colpa del Top Gear Special.

A Dalat non ho potuto fare un granché a parte rifugiarmi in montagna contro il tifone, che nel frattempo è arrivato a Nha Trang. Quando è passato sopra Dalat, Venerdì notte, ero a letto, da solo nella camerata da quattro a guardare la seconda stagione di Stranger Things. Non fa una piega.

Dalat Vietnam Viet Nam fog nebbia stranger things amber ambra

L’ostello a Dalat è praticamente occupato dagli amici del bartender. Gli pago le birre che prendo dal frigo mentre lui gioca al computer. Abbiamo passato un po’ di tempo insieme e devo dire che si sono davvero riforniti preparati per stare al chiuso, al riparo dal tifone. Sono ragazzi.

Ma scopriamo cos’è successo a chi ha invece deciso di partire…

I had the craziest ride of my life yesterday! Slid, in the mud, hit a falling tree on the road, got chased by dogs when I was struggling to get out of the branches… rode along a pass in dark through pouring rain, then also had a road with potholes to half a meter deep, drove over a crippling bridge… with loose and missing planks… nobody on the road and I damn f*cking enjoyed it like never before!!!
It was fun singing om my moterbike in the pouring rain in the dark, and no one hearing you. Damn, when I saw that tree suddenly in front of me, I was like riding 40, had to hit the brakes hard, managed to keep the bike straight but still slammed full on in the branches…
I’m ok though, but the more i think of it, the more i loved it! Haha

— Chistophe

L’unica cosa che ho visto di Dalat sono state le cascate di Pongour, a 50 km di distanza, quando avevo già lasciato la città. A dir la verità, avevo voglia solo di arrivare al mare e spaparanzarmi al Sole, ma dopo tutta questa strada e giorni passati in ostello almeno una cosa dovevo vederla! Snobbo le cascate dell’Elefante, che mi sembrano piuttosto normali e arrivo a quelle di Pongour, dove l’acqua batte su una serie di massi neri a gradoni.

Pongour waterfalls vietnam viet nam cascate cataratas backpacking exploration explore traveling adventure

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Dopo nemmeno un’ora sono di nuovo in strada. Scavalco la montagna e un paesaggio spettacolare si apre davanti a me, vasto, pesante e carico di pioggia. Ah, Dalat, quanti regali che mi fai…

vietnam dalat landscape panorama paesaggio vista viet nam mountains Binh Thuan motorcycle motorbike backpacking exploration explore traveling adventure

Mentre scatto alcune fotografie, incontro un paio di altri backpacker in moto, appena comprata a Saigon e scopro che le moto costano molto di più che ad Hanoi, dove l’ho comprata io. Honda Kerouac, verrai dovutamente ceduta a caro prezzo.

La moto però adesso è ancora mia. Comincio la discesa tutte curve e gioco a fare il rally, supero furgoncini e bus (cosa da fare comunque, a meno che non vi piaccia respirarne gli scarichi, subirne la polvere e rischiare di essere colpiti da un sasso scalciato dai copertoni).

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La moto va che è una belva. La velocità è comunque relativa… con tutte queste curve, a parte qualche sporadico rettilineo, non si può andare nemmeno a 40 all’ora.

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Arrivo a valle dopo forse un paio d’ore di guida spavalda ed eccitante. Mi lascio le montagne sullo sfondo mentre attraverso la pianura. Le indico e scandisco fieramente « montagne, siete state conquistate. ».

È la stanchezza.

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Incrocio Jimm e Isabelle, che il giro se lo stanno facendo in bicicletta! Un po’ li invidio per il non avere il rumore della moto tutto il tempo, ma quando li vedo paonazzi e sudati ci ripenso.

« Ci vediamo a Mui Ne » Gli dico.

Do gas, me li perdo alle spalle e, si… un po’ m’è piaciuto.

 

 

CANZONE DEL GIORNO: Booker T – Time is tight