Angkor Thom

Stamattina mi sono spostato al Funky Flashpacker, l’ennesimo ostello baraonda pieno di pischelli. Noleggio una mountain bike alla reception ed è un affare! La bici costa solo un paio di dollari in più di quella di ieri, ma è nuova di zecca: copertoni immacolati, freni a disco, sospensioni cariche e marce che scattano con un tocco, come rane in uno stagno minato.
Oggi visito Angkor Thom, un complesso dieci volte più esteso di quello di ieri. Supero l’ingresso di Angkor Wat e mi infilo in un sentiero in terra battura avvolto nella vegetazione. Percorlo con questa bicicletta è una figata! Sto cercando di raggiungere Phnom Bakheng. La strada sarebbe un’altra, ma il sentiero pare essere collegato proprio alle spalle… ehhhhh, no.

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Una specie di leone indica un percorso inesistente. Mi metto la bici in spalla e mi inerpico fino alla strada in cima bestemmiando e sudando senza ritegno. Il percorso arriva fino ai piedi di un piccolo ponte, segno che ho percorso lo scolo naturale dell’acqua piovana che scende dalla collina.

Mi rimetto in sella ed arrivo al tempio dove vengo accolto* da una guardia sbigottita: se avessi percorso la strada principale mi avrebbero fatto lasciare la bicicletta a valle… oh, ciccio, ma che vuoi?
Il tipo mi lascia perdere. Visito brevemente il sito (in restauro) e scendo lungo un’altro sterrato da paura che zigzaga fino a valle, dove di immette al viale principale. Svolto a sinistra e poco più avanti raggiungo l’ingresso sud del complesso.

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Basterebbe questo a svoltare la giornata, ma non è nulla in confronto con quello che trovo poco più di un chilometro più avanti: il tempio di Bayon, la perla mistica di Angkor Thom. Ovunque io volga lo sguardo scopro una quantità di enormi volti scolpiti nella pietra con la loro espressione placida e serena. La pietra è coperta da muschio (o muffa) che confonde le forme e cela i colori originali.

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Questo posto è incredibile… ci sono qualcosa come 200 facce, alcune altre più di due metri, poste dappertutto. La struttura in sé è concepita in modo da amplificare la sensazione di essere in un luogo magico. La pianta del sito è regolare, ma i vari livelli si sovrappongono in modo da non permettere di orientarsi con scioltezza. Bisognerebbe visitarlo al mattino presto quando i turisti ancore non affollano ogni angolo della struttura. Ad ogni modo c’è da restare a bocca aperta.

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Esco dal tempio e passo lungo una serie di altri siti (come ad esempio la “terrazza degli elefanti”), ma nessuno di questi mi convince a fermarmi per visitarlo. Gran parte dei siti sono un ammasso di pietre che sicuramente avranno una valenza archeologica e bla, ma non riescono ad attirare la mia attenzione… di certo non dopo il tempio di Bayon.

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Esco dalla porta Est (Victory gate) e stavolta, invece dei faccioni rabbiosi della porta sud, trovo una serie di statue senza testa che sorreggono un corrimano di pietra. Superato il ponte scopro che il corrimano è un realtà un lunghissimo cobra con un mandala scolpito sul petto e le mani di alcune delle statue che confluiscono alla base del cobra.

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Più avanti c’è il tempio di Te Prohm, uno dei più suggestivi di tutto il complesso. Anche questo è un restauro, ma solo un lato è stato completato dando così la possibilità di vedere la mole di lavoro che va nella conservazione dei siti. In una bacheca posta all’ingersso ci sono alcune fotografie che mostrano com’era prima dei lavori di recupero. Bastano quegli scatti a farmi capire quanto il costo del biglietto sia ragionevole in fondo.

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La natura s’incastra nel tempio, si contorce, lo divelle, lo annienta. Un albero è cresciuto proprio a ridosso di un cortile interno ed ora s’innalza al di sopra del corridoio lungo il perimetro con le radici che lo avvolgono come tentacoli.

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Gli alberi sono il pezzo forte del sito. Ce ne sono di tutti i tipi e forme. Alcuni sono di interesse botanico ed un cartello alla base ne indica la nomenclatura.

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Ogni tanto sento il verso di alcuni pappagalli che volteggiano sopra le chiome degli alti alberi. Un suono in particolare si impone su tutti quanti… lo sentii per la prima volta a Cat Ba, in Vietnam. Sembrava il rumore intenso e continuo di una sega circolare e pensai che ci fossero dei lavori in corso da qualche parte che però non riuscivo a vedere. Quel suono in realtà lo fanno i grilli ed è così assurdo (anzi assordante) che l’ho voluto registrare:

È tardissimo. Il parco è già ufficialmente chiuso e i guardiani stanno aspettando che la gente esca dal tempio per spedirla in tuk-tuk a Siem Reap. Io non ho fretta, anzi! Questo è il mio ultimo giorno in Cambogia e anche di viaggio, se escludo il ritorno a Bangkok. Passeggio ancora un po’ tra le rovine ed esco quando il riverbero della luce del giorno trascorso è ormai così debole da non riuscire più a penetrare la vegetazione. Ormai non c’è più nessuno.

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Ho con me una di quelle torce da campeggio che si mettono sulla fronte e la uso per illuminare la strada* davanti a me. Non sono ancora pronto per lasciare questo posto e corro verso l’ennesimo tempo, Banteay Kdei. Se vado dritto all’ingresso qualcuno mi rimbalza di sicuro… imbocco il sentiero sterrato che corre lungo il perimetro e trovo un ingresso secondario. Devo ammettere di avere un po’ paura di scontrarmi con qualche branco di scimmie o cose così. Ad ogni modo è notte e sto girando da solo nel tempio in mountain bike :))

Un corso d’acqua mi blocca e purtroppo devo tornare indietro, ma sono soddisfatto. La strada principale è un via vai di turisti che torna in città. Mi aggrappo ad un tuk-tuk e faccio il simpatico con le signore sedute dentro. Ad un certo punto vedo una sterrato illuminato da candele e torce conficcate nella terra. Mollo il tuk-tuk (spezzando il cuore delle signore) e controllo sul cellulare. Google maps dice che lì c’è un tempio (Prasat Kravan). Non mi resta molta energia, ma decido di dare comunque un’occhiata. Qualcuno ha organizzato un evento, forse un matrimonio, non lo so… quello che so è che questo tempio è un pacco e torno sulla strada principale. Provo a riacciuffare il tuk-tuk per farmi trascinare a casa, ma è troppo lontano. Ogni chilometro sembra misurarne dieci. Giro la torcia sulla nuca per farmi vedere dalle macchine che mi sorpassano ed raggiungo l’ostello allo stremo delle forze.

Faccio una doccia ed incontro Isabelle e Jimm [i due ciclisti che ho incontrato per la prima volta a Bai Xep e continuo ad incontrare ad oltranza] e provo a convincerli a mangiare insetti, ma loro fanno gli schizzinosi. Facciamo un giro a Siem Reap insieme e finiamo in un piccolo bar gestito da un fattone vestito come Jack Sparrow. Lui vuole essere chiamato Jack Sparrow e ci tiene a precisare che non è che lui sia strano, è che ha fumato troppa happy plant.
Giochiamo a Jenga e scopriamo che su ogni mattoncino qualcuno ha scritto una penitenza. Ballo con una sconosciuta al tavolo affianco, offro una sigaretta, da bere e torno all’ostello un attimo prima di svenire dalla stanchezza. Rubo un paio di Oreo lasciati impunemente da qualcuno in camerata e mi stendo sul letto. Ripenso alla lunga giornata piena di emozioni e mi addormento, esausto e soddisfatto.

CANZONE DEL GIORNO: Sun is Shining, Bob Marley

Phnom Penh

Uno strano silenzio avvolge la città di Phnom Penh. Il centro è un brulicare di persone, motorini e (a differenza del Vietnam) di macchine, eppure sembra essere tutto sottotono, sommesso… qui la gente non ha l’abitudine di urlare, né di suonare i clacson ad ogni battito del cuore, ma e più probabile che la ragione sia da cercare nella caduta del sanguinoso regime dei Khmer rossi, soltanto quarant’anni fa.

Eventi del genere sono ferite che non si rimarginano mai completamente e i processi per crimini contro l’umanità sono tutt’ora in corso. La cicatrice è quello strano rumore… come di un urlo soffocato da un cuscino, quella pressione acustica che rende tutto così malinconico ed inquietante. Solo un’altra città è riuscita in passato a darmi la stessa sensazione: Osvienčim, ma in tedesco la chiamano Auschwitz.

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Qualcuno mi ha spiegato che quando Pol Pot era ancora solo un perseguitato politico si era nascosto nelle campagne dove fu colpito dalla vita semplice dei contadini. Quando prese il potere, al termine della guerra civile, decise però che TUTTI dovessero essere contadini e chi aveva sempre vissuto in città ed era istruito era di conseguenza un cancro per la società. Quando fece evacuare la capitale, Phnom Penh appunto, ci fu un movimento di qualcosa come due milioni e mezzo di persone.

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Passeggio per la città alla ricerca di qualcosa da ricordare per quando sarò andato via. Il centro è un susseguirsi di palazzi in stile coloniale, folle di gente ferma ai semafori e gli immancabili tuk-tuk. Un autista sta appoggiato al suo fumando una sigaretta, ha una camicia di cotone grezzo ed un cappello da signore d’altri tempi, posto come se fosse un italiano della Little Italy newyorkese del dopoguerra, o Rocky. Fate voi. Provo a scattargli una foto, ma una signora dall’altra parte della strada lo avverte del grande pericolo in cui incombe (sono ovviamente una spia) e perdo l’occasione. La città è territorio ostile. Non che la gente sia maleducata, ma c’è una diffidenza generalizzata che a volte riesce a farmi sentire a disagio.

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Mi siedo in un posto qualunque e bevo una tazza di caffè cambogiano: un intruglio che ricorda l’acqua sporca, con un deposito di macina sul fondo (oh, quanto mi manca quello vietnamita). Mi collego al wi-fi e un’amica, Giuliana, mi scrive dall’Europa chiedendo se posso procurarle un vinile di Ros Sereysothea, Pan Ron o Yol Aularong, tutta musica degli anni ’60. Leggo si Wikipedia che Ros Sereysothea è sparita durante la rivoluzione, perseguitata e probabilmente giustiziata dai Khmer rossi. In una nazione dove la gente veniva fucilata solo per portare gli occhiali da vista non so quanto riuscirò a trovare un vinile di musica influenzata dall’occidente, ma sono così a corto di stimoli ed idee su come svoltare la giornata ache decido di provarci lo stesso.

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Faccio un giro al mercato Orussey, dove fatico a far capire anche solo la parola vinile. Mostro una fotografia sul mio cellulare e qualcuno mi indica un’area del mercato dove vendono cd, impianti stereo e gadget elettronici. Nessuno dei negozianti ha mai sentito parlare di Ros Sereysothea, ma mi dicono di provare nei negozi di antiquariato nei pressi del Palazzo Reale.
Dopo una mezz’ora a piedi trovo la strada giusta e provo a parlare con un negoziante. Sembra alquanto sorpreso di essere approcciato da uno straniero, ma credo sia solo un modo di nascondere la sua curiosità; questa volta vengo dirottato al mercato ‘Russo’ (Phsar Tuol Tom Pong).

La ricerca si trasforma in una caccia al tesoro.

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Visito una serie di Mercati l’uno dopo l’altro… formicai che si assomigliano un po’ tutti, soprattutto per la massa di merce dalla dubbia qualità che trabocca e sta appesa fuori dai chioschi come incrostazioni marine. La maggior parte delle ‘botteghe’ sono sostanzialmente delle nicchie grandi quanto una cabina telefonica e con l’unica funzione di tenere il proprietario fuori dallo stretto corridoio destinato ai passanti. Ogni mercato ha un suo ordine e in ognuno di questi c’è un’area per i gioiellieri, una per i vestiti, per il cibo, l’elettronica e così via.
C’è praticamente tutto tranne quello che sto cercando io.

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Mi perdo in un piccolo quartiere compresso tra due mercati (seembra di stare a Napoli, ma senza le rivoltelle) e mi imbatto nel barbiere ambulante più distinto che abbia mai visto. Ha una sedia imbottita di pelle rossa ed un mobile in legno sormontato da uno specchio incorniciato. Ha appeso sul muro alcuni ritagli di giornali e un gancio per il grembiule, trasformando quella porzione di marciapiede in un negozio vero e proprio. Sta tagliando i capelli ad un bambino con la mamma in piedi di fianco a loro ed io penso all’ennesimo scatto che mi sto perdendo per il mio rifiuto di puntare la macchina fotografica in faccia alla gente. Stavolta però mi fermo e chiedo a tutti se posso fare una fotografia. La signora fa finta di non capire, ma non rinuncio e chiedo ancora. Sollevo la reflex e scatto una foto che più la riguardo più sono contento di essermi ostinato a farla.

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Attraverso il quartiere e visito l’ennesimo mercato. Il fantomatico vinile di Ros Sereysothea è la carota che mi tiene in moto per tutta la giornata. Soltanto quando ormai ho visitato un numero imprecisato di negozi di musica mi viene l’idea di provare on-line, dove mi arrendo all’evidenza: i vinili cambogiani sono materiale da collezionisti.

My mission was impossible, I was a fool for even trying. The only vinyl records from that era were either in government libraries or in the homes of elderly people related to the Pol Pot regime. Some people used to copy their records to cassette in order and sell them in markets, but that as a foreigner, I stood little chance of finding these second-hand tapes. […] For three humid hours, I visited a series of all-in-one electronics stores, acting as if I was searching for the Loch Ness Monster in a tropical jungle.

Mass Appeal

A suo modo la giornata è stata abbastanza avventurosa. Mi ha stupito la differenza tra Phnom Penh e qualsiasi altra Città vietnamita, dandomi la possibilità di capire quanto Paesi così vicini e da una storia in comune restino comunque molto diversi tra loro in ogni minimo dettaglio. L’unica costante del sud-est asiatico è la coca-cola.

Molti backpacker sono convinti che Phnom Penh non abbia molto da offrire se non un po’ di architettura coloniale. Molti la visitano giusto per il tempo di completare l’escursione ai Killing Fields o l’angosciante museo S-21. La capitale effettivamente è un po’ sottotono, ma vale la pena di visitarla se si vuole capire meglio la cultura cambogiana, muovendosi in un contesto relativamente poco turistico e quindi più genuino.

Daniele Sepe – La historia es nuestra, y los hacen los pueblos

Angkor Wat

Era dai tempi di Mortal Kombat che volevo andare ad Angkor Wat, o era Tekken 3… Tomb Raiden? Boh, chissenefrega, l’importante è essere sopravvissuti alle zanzare di Ko Rong (mi sto ancora grattando senza ritegno).

Il complesso dei tempi è qualche chilometro fuori da Siam Reap. Quello che mi aspettavo essere un villaggio affollato di monaci buddisti è in realtà una città a tutti gli effetti, con tanto di quartiere baraonda in stile Khao San Rd di Bangkok, solo che questa si chiama Street 08. Il locale più gettonato è il Temple Club, ma anche no, grazie. Oltre agli happy menu (dove happy sta ovviamente per marijuana) ed un ristorante dove si possono mangiare insetti non c’è davvero molto da fare in città a parte ovviamente visitare il gigantesco parco archeologico di Angkor.

Mi accontento.

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Noleggio una mountain bike per cinque dollari e percorro la Angkor River Road fino al tempio. È una bella giornata calda e soleggiata e la strada in realtà un sentiero in terra battuta che meno male che ho la mountain bike. Mi perdo un paio di volte, poi sbuco alle spalle del tempio. Faccio il giro ed arrivo all’ingresso dove mi chiedono il biglietto…
« ahem, non ce l’ho il biglietto, me lo devi vendere tu. »
« No, noi i biglietti non li vendiamo, devi andare alla biglietteria. »
« Ok… e dov’è la biglietteria? » (è la conversazione dell’anno)
« La biglietteria è in città. »

…in città??

Un paio di autisti degli stramaledetti tuk-tuk fiutano l’affare e mi invitano a non perdere un altro litro di sudore e insistono di farmi accompagnare comodamente da loro. Protesto, bestemmio satana e la madonna (per par condicio), infine mi rimetto in sella e nella delusione generale torno indietro da solo, stavolta per la strada principale (Charles De Gaulle). Qui scopro che se l’avessi percorsa all’andata sarei stato fermato almeno un paio di volte per farmi controllare il biglietto e non avrei sprecato tutto questo tempo (il parco è un complesso di dieci chilometri quadrati, non esiste un ingresso vero e proprio).

Percorro buona parte del viale trainato ad una specie di motocicletta con rimorchio, riprendo fiato e faccio le faccine buffe ad una bambina seduta sul retro per meritarmi il passaggio. Mollo il furgoncino, sterzo, mi aggrappo ad un altro furgoncino ed arrivo alla stramaledetta biglietteria. Qui mi fanno una foto e la stampano sul mio biglietto valido 3 giorni. Una cosina come 62 dollari. Pedalando, torno all’ingresso del tempio e sfodero trionfante il mio costoso e agognato pezzo di carta.

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Un ponte di blocchi di plastica interconnessi permette l’attraversamento del fossato inondato. Sono in pratica grosse taniche galleggianti e mi diverto a saltare rimbalzando da un blocco all’altro. Oltre le mura e le solite scimmiette c’è una quantità di turisti distribuiti in modo abbastanza omogeneo e le cupole del tempio sullo sfondo.

Mi immetto sul viale principale, entro nel tempio e cerco di capire come orientarmi. Due locali posti in serie introducono alla struttura, danno accesso ad una serie di corridoi che corrono lungo il perimetro esterno ed ad alcuni cortili interni che credo fossero fontane.

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Imbocco il corridoio e scopro una lunghissima scena di guerra scolpita nella parete in forma di bassorilievo. Alcune figure sono ancora levigate e lucide e con dei residui di colore. La battaglia ritrae un gran numero di soldati, strani animale, eroi e nemici sopraffatti. Metto su le cuffie e faccio partire la mia playlist Honda Kerouac (RIP), scatto un gigaglione di fotografie ai bassorilievi e lascio che il buon umore prenda il sopravvento.

Il tempio è interessante, ma decisamente meno suggestivo di quanto immaginassi. Non c’è la giungla che s’impadronisce e crepa i muri delle rovine… è tutto così in ordine e noioso. Ho ancora molti posti da visitare, non mi demoralizzo.

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All’uscita del tempio, un ragazzino mi si avvicina mentre sto slegando la bicicletta e mi offre un ananas già sbucciato per mezzo dollaro. Gli dico di no e lui comincia a lagnarsi…

« uhhhhhh, signoreeeee, compra ananas solo mezzo dollaroooo, uhhhhh… »

Non attacca bambino, appioppa il pippone ad altri turisti… o turiste? Magari l’istinto materno con loro attacca. Il bambino ride contento, poi però mi fissa di nuovo e ricomincia a lagnarsi…

« uhhhhh, compra ananas solo mezzo dollaroooo, uhhhhh… »

Oh, ma che sei scemo? Mi hai appena riso, sei un pessimo attore! Ve bene bambino, eccoti il mezzo dollaro, hai vinto tu.
Procediamo allo scambio, il bambino s’infila i soldi in tasca e invece di andarsene adesso mi mostra delle cartoline del tempio e… no, adesso te ne devi proprio andare.

Infilo l’ananas nella tasca esterna del mio zaino (l’ananas è in una bustina trasparente) e pedalo verso Pre Rup, da dove a quanto pare il tramonto sia particolarmente bello da vedere… però non ho fatto ancora una foto alle scimmiette. Ne scorgo un gruppetto poco più avanti sul ciglio della strada di fronte ad un parcheggio. Scendo dalla bicicletta e mi chino a fotografarne una, quando ecco che un’altra mi scivola dietro e sfila l’ananas dallo zaino! Scatto per riprendermelo, ma lei è troppo veloce e balza all’indietro di pochi metri. L’ananas è ancora protetto dalla busta ed io mi sono appena dovuto sorbire il teatrino di un mocciosetto per dieci minuti per quello. Scatto di nuovo in avanti con le braccia aperte per apparire più grosso e spaventare la scimmietta… il branco non la prende bene: un muro di cinque o sei scimmiette incazzatissime si materializza tra me e la scimmietta con l’ananas e mi mostra i denti in assetto da guerra. Urlano la loro minaccia ed avanzano afferrandomi il polpaccio per un paio di volte.

Merda, merda, merda… mi sgonfio ed indietreggio con grandissima cautela. Cinquanta centesimi di ananas non valgono un morso di una scimmia che come minimo mi passa la rabbia.
Cammino a ritroso per un paio di metri, poi per miracolo le scimmiette mi lasciano andare via. Mi volto e incrocio lo sguardo con una guardia del parco che ha guardato la scena allibita. Solleva un dito e mi dice serio.

« attento alle scimmie »

…e grazie al cazzo, me lo potevi dire prima.

Torno in sella e pedalo verso il tempio di Prae Roup. A quanto pare uno è dei posti migliori per vedere il tramonto, insieme al Phnom Bakheng.

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Ci metto un po’ ad arrivare, forse ho solo le gambe un po’ molli per colpa delle scimmiette. Comunque sia, costeggio il fossato di Angkor Wat, pedalo lungo il bacino artificiale di Srah Srang ed arrivo al tempio giusto in tempo per visitarlo prima che il giorno finisca. Non che ci sia molto da vedere… persino il tramonto non vale un gran che, dato che un grosso albero impedisce di vederlo. L’unica cosa degna di nota è la vista della giungla. Scatto una foto, torno a Srah Srang e decido di fermarmi qui.
Godermi il tramonto è un’impresa. Appena mi fermo vengo circondato da un gruppetto di ragazzini che mi vogliono vendere di tutto… magneti da frigorifero, flauti stonati… ad ogni no ecco che mi viene proposto un nuovo oggetto. Non voglio niente, no… no… fino a quando una bambina dice la parola magica.

« Birra? »

Gli altri bambini non ci stanno, vogliono spremermi un dollaro anche loro, ma sono stremato e gli rispondo secco che adesso se ne devono andare. Mi guardano delusi ed intristiti (ma ormai lo so che è tutta scena) e finalmente se ne vanno via.

Mi sistemo su una roccia, do un sorso alla mia birra e mi do uno schiaffetto alla nuca: Zanzare. Porca madonna, oggi non c’è davvero pace.

Faccio un respiro profondo, svuoto la mente e mi concentro su dove ho la fortuna di trovarmi, dopotutto. Ripenso alla corsa lungo lo sterrato fino al tempio, i lunghi corridoi scolpiti, fino alla libertà di quelli che sono ormai quasi due mesi in viaggio per conto mio. Do un altro sorso alla birra…

Angkot Wat, check.

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CANZONE DEL GIORNO: Cygnus… Vismund Cygnus – The Mars Volta

Koh Rong jungle path

This ain’t a trail anymore, I’m just getting lost in the jungle. Maybe I’ll step onto a viper or on one of those huge spiders that give you paralyses in a fistful of seconds and then lay eggs in your brain.
No way I’m letting myself get lost in this stupid woods. I walk back, lie on a random hammock and take a nap to sober up a bit.

Here on this tropical island it’s kinda warm also at night, with the only downside of restless clouds of mosquitos biting both during the day and night. I don’t hear then buzzing around, just the random stings on my legs. Pressed against the net of the hammock my body probably looks like a gigantic salsiccia right now, how could I blame them.

Jez, this thing is so uncomfortable. Yesterday a girl shown me how to lay flat on hammocks, but this one doesn’t quite work that way, it’s just a stupid piece of waved acrylic. The humidity coming from the sea mixes up with the mosquito repellent on my skin, making me feel sticky and toxic. I stand up and try again to find my way to my cabin, to my bed.
The path through the jungle is actually a wild hill between two stretches of beach. Crossing the thing would be just the beginning of the whole journey. The second beach is four kilometres long and has a small river flowing in its middle and judging the tidal I’ll have to dip in the water up to my hip to walk by. There is another jungle path on the other side. I’ll never make it home.

I cross a small group of people… maybe they know the way? I say hi to the one closer to me and I ask:

«Do you know how to go to the 4K beach?»
«what?»
«My cabin is at Suns of Beaches, east of the island»
«Oh my god! Yes, I know the place… it’s so far!»
«Yeah, I know… do you know how to go past the jungle?»
«Wait, I ask my friend, he knows better»
She waves to a guy, then tells him the place I need to go back to
«Oh my god, it’s so far!» He says.
«I knooooooow, but maaaaybe you know how to go through the jungle?!»
«Oh, yeah… just go straight, man! You gotta walk for at least one hour»
He freezes, thoughtful, then reaches his conclusion:
«Oh my god, It’s so far!»

I wave a hand while mumbling a rough goodbye and I get stuck again in the jungle. I’ll never get out of here. Also, it’s getting way too Blair Witch Project for me right now. What the girl said it was mixed with that chocolate bar she gave me before? I don’t remember (or maybe you don’t need to know if you don’t get it already), anyway I really don’t want to lie down any longer in a stupid hammock just to wake up all contort. Maybe I can break in one of the empty bungalows and save myself from the mosquitos army, but all doors have locks.
I’m standing in the porch of one of the bungalows when I decide that from now on I don’t care about anything anymore.
I grab a big pillow from a round bamboo armchair and I use it as a mattress. At this time I can just wait for the daylight to find the way back.
I wake up in the darkness from time to time. I spray myself with some more mosquito repellant, then I get back to sleep.

Slowly, after dozen of bites per foot, the morning comes. The stupid path was flooded, of course I couldn’t see it! Also, I was so ridiculously close to the other side!

I try to enjoy the sunrise, an blinding orange disc floating above the sea horizon, shiny waves and countless dragonflies, but the tiredness doesn’t quite let me to do so. I need a shower, to poop and to sleep twelve hours.

Yesterday-a-guy-got-lost-twice-in-the-jungle-and-ended-up-sleeping-on-the-way is the story of the day here at the budget beach resort.

So funny.

 
SONG OF THE DAY: You oughta know, by Alanis Morissette

Daem Thkov Village

Ci sono una quantità di posti dove dormire a Koh Rong, ognuno con la sua caratteristica unica. Quella di Inn the Village è essere l’unico ostello in un piccolissimo villaggio di pescatori all’estremità est dell’isola, altrimenti abitata nel piccolo centro turistico sviluppatosi attorno al molo del traghetto che collega a Sihanoukville.

Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum

Ad essere brutalmente onesti, il villaggio è una baraccopoli fatiscente che più si avvicina alla definizione di discarica. I pescatori hanno l’abitudine di trattare il mare come un bidone della spazzatura gettando fuoribordo bottiglie di plastica, reti da pesca strappate, scarpe, circuiti fulminati. La roba che non fa a fondo viene trasportata dalla corrente fino al villaggio, si riversa sulla riva e al di sotto le baracche sospese sull’acqua come palafitte.

Non che mi aspettassi un’atmosfera da resort e quel che vedo è semplicemente la realtà di un popolo poverissimo (anche in un’isola turistica come questa), ma non mi sarei accampato in un posto come questo se fossi stato sulla terraferma.
Questa insomma è stata la mia prima impressione del villaggio di Daem Thkov, tecnicamente corretta, ma anche piuttosto maldestra e superficiale. Il villaggio ha di più da offrire dell’immondizia e di un pugno in faccia.

Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum

Ieri sera, passeggiando* per il villaggio, un tizio ha invitato me e altri due backpacker nella sua baracca in mattone, ma senza elettricità e ci ha offerto da bere. Siamo restati a sorseggiare birra al buio con lui che provava a dirci che si sarebbe trattenuto al villaggio solo per qualche mese per fare un po’ di riparazioni e portare dei soldi a casa, a Phnom Pehn. Non conosceva nessuno e sembrava un po’ solo. La backpacker australiana, Amy, chiacchierando del più e del meno finisce per dirgli che da lei, a Melbourne, le sigarette costano qualcosa come quaranta dollari al pacchetto, roba da scioccare anche me. Il tizio non capisce subito così io converto la cifra in Riel cambogiani (160.000 KHR). Lui dapprima resta stupefatto, poi ride divertito. Qui le sigarette costano tremila Riel.
Quando torniamo all’ostello Rick, il gestore, convince tutti a giocare a werewolf e la serata finisce alla buona.

L’indomani (cioè stamattina) mi sveglio quando è ancora presto (almeno per i miei standard). Faccio una doccia versandomi addosso secchi d’acqua gelata e mi lavo i denti sporto dalla finestra del bungalow.
Non so che fare, ma di certo non ho voglia di sprecare la mattina a ritoccare le foto. Prendo la macchina fotografica e decido di esplorare il villaggio. D’altronde sono venuto qui per questo.

monkey koh rong, cambodia

Passeggio sul molo e mi fermo a giocare con una scimmietta legata alla veranda di una baracca. Poveretta… mi dispiace che debba vivere così, almeno le faccio un po’ di compagnia. La scimmietta mi spulcia le gambe (rendendomi cosciente del mio corpo villoso), si arrampica sui miei vestiti, grida e salta via.

Ok, me la voglio portare a casa.

monkey koh rong cambodia

Gioco con la scimmietta per una mezz’ora, quando una ragazzina mi si avvicina sorridente. Vuole vedere la mia macchina fotografica. Non è insistente, solo interessata. Ci penso un po’ e decido di fidarmi. Le faccio indossare la tracolla e le insegno come scattare una foto. Impara anche qual’è il bottone per visualizzare l’ultimo scatto.
Lei fa la sua prima foto, la rivede nel piccolo schermo della reflex e mi guarda come se nessun bambino al mondo fosse mai stato più felice di lei.

Mi sciolgo.

Little girl Daem Thkov inn the Village villaggio Koh Rong island isola ilha Cambodia Cambogia reflex canon DSLr

smile, you're being recorded koh rong inn the village

Arrivano altri due bambini e il molo si trasforma in una festa. Il più piccolo peserà, non so… dieci chili? Lo sollevo, lo faccio volare e lui grida divertito. Salto, corro, faccio le piroette con lui sulla schiena… un rodeo, poi lo metto giù. Anche l’altra bambina (forse la sorella) vuole essere fatta volare ed io capisco di aver appena commesso un grande, grandissimo errore.

Playgin with kids kid boy flying carrying around Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum

Giochiamo così per quella che mi sembra un’eternità. Mi diverto un mondo, ma sto sudando come un animale. La prima bambina almeno è ancora presa dalla macchina fotografica e non solo non è interessata ad essere sballonzolata in tutte le direzioni, ma scatta una foto dopo l’altra di me che gioco con gli altri bambini. Insomma, win-win.

Little girl Daem Thkov inn the Village villaggio Koh Rong island isola ilha Cambodia Cambogia reflex canon DSLr

Playing kids kid boy flying carrying around Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum

Non mi sento più le braccia. I bambini vogliono saltare ancora… e ancora. Gli faccio capire che sono stanco, ma se ne fregano. Per miracolo la scimmietta si rianima e i bambini dirottano il divertimento su di lei.

Playing kids kid boy flying carrying around Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum monkey scimmia scimmietta

Sono passate ore da quando sono uscito a fare quella che doveva essere una breve passeggiata mattutina, ma adesso che è arrivato il momento di tornare all’ostello non ne ho voglia. Vorrei restare a giocare ancora un po’. Faccio un ritratto alla bambina-fotografa (se potessi l’adotterei a distanza) e mi strappo dalla situazione.

All’ostello racconto della mia mattina. Rick, mi spiega che la bambina-fotografa è figlia di alcuni vietnamiti trapiantati sull’isola e non parla una parola di Khmer. Secondo lui soffre di un disturbo dell’apprendimento, ma non direi, almeno non a giudicare da quanto ci ha messo a imparare a usare la mia macchina fotografica. Mi si spezza il cuore a pensare alla totale mancanza di opportunità che affligge questa gente, non solo i bambini. Man mano che Rick mi parla del villaggio e racconta più storie cerco di immaginare un modo per aiutare concretamente questa gente in modo duraturo, ma non riesco a pensare a niente.

Qui mancano le nozioni base di igiene, l’istruzione e chissà cos’altro. Oltretutto non ho l’impressione che la gente sia molto interessata ad aiutarsi a vicenda, anzi… avverto una diffidenza generalizzata anche tra di loro, un cancro che pensavo fosse un’esclusiva delle nazioni industrializzate e iper-digitalizzate del primo mondo.

Daem Thkov inn the village villaggio koh kong cambodia slum fishes fish cage vasca pesci

La Cambogia sta ancora rimarginando le profonde ferite inflitte dalla dittatura Khmer, finita solo negli anni settanta e così recente che i processi per crimini contro l’umanità sono ancora in corso. Proprio in questi giorni è arrivata la notizia che il primo ministro cambogiano (in carica da più di trent’anni) ha ordinato la dissoluzione del partito di opposizione, colpevole di essere diventato troppo popolare.

Più passa il tempo più mi convinco quanto l’inglese come lingua internazionale sia un patrimonio dell’umanità. Il primo passo per ogni processo di emancipazione passa per la consapevolezza della propria condizione e il contatto con realtà diverse non può che favorirlo.

Lo sapeva bene Pol Pot.

FRASE DEL GIORNO: មានម្នកណាចេះភាសាអង់គ្លេសទេ ?