The aspects of things that are most important for us are hidden because of their simplicity and familiarity.
― Ludwig Wittgenstein
Educazione europea
Das Leben ist hart, aber eines der schönsten.
– Luther Matthäus
Si ragionava sul fatto che i polacchi sono timidi mentre i tedeschi sono… distanti.
«Distanti?»
«Uh, forse non proprio distanti… sono inibiti, ecco.
Prendi un bambino tedesco: inciampa, cade e si mette a piangere. I genitori non battono mica ciglio: si fermano, lo guardano inespressivi e gli fanno “beh, e allora?”
Le emozioni di un bambino non hanno la complessità di quelle di un adulto. Possono essere euforici o, appunto, disperati. In quel momento il bambino è travolto dall’emozione che segue il dolore, ma quando cerca conforto trova solo un volto inespressivo: il bimbo cresce inibito, pensa che quella sensazione, la coscienza delle proprie emozioni, sia qualcosa da reprimere.
Adesso, per dire, prendi un bambino italiano. Appena le ginocchia vanno a terra una madre sconvolta che nemmeno la Anna Magnani di Roma città aperta si getta in lacrime sul pargolo, lo strattona implorandolo di dirle che sta bene. “Oh, tesoro della mamma, cosa, ma cosa ti sei fatto?! sanguini? Oh, tesoro della mamma, hai stracciato i pantaloni che ti ho appena comprato, ma io ti straccio la faccia. Che è stato? Ti sei dimenticato come si cammina? Mannaggia a’ miseria!”.
Infine, come se nulla fosse appena accaduto, la mamma ricompone il colletto del figlioletto e gli promette coccole, cioccolata ed un cerotto dell’uomo ragno.»
Noi italiani allora cresciamo schizofrenici. Gesticoliamo, ci alteriamo, siamo passionali, eccitati e disperati. Petrolini, Totò, Benigni e D’Annunzio.
Ci sono un tedesco ed un italiano in un bar, e il tedesco…
niente, il tedesco non dice niente.
Fine della storiella.
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When I was a school-boy and was to have a new knife, I could not make up my mind as to which was the prettiest in the show-case, and I did not think any of them were particularly pretty; and so I chose with a heavy heart. But when I looked at my purchase, at home, where no glittering blades came into competition with it, I was astonished to see how handsome it was.
– Mark Twain (The innocents abroad, 1869)
Marocco
Mina, la ragazza berbera che ho incontrato all’ostello ad Essaoueira, ha i capelli più folti che abbia mai visto. Se li è lasciati crescere a dismisura e adesso le sovrastano il capo, si riversano come un fiume nero, ruvido e lucente, sul collo e le spalle. Sono così spessi che per acconciarli le basta sistemarli a ciocche. Solo quelle che le pendono dai lobi possono ondeggiare liberamente, il resto è parte di un intreccio a strati. Con una dimestichezza che ha del regale Mina ignora sia il peso che il calore di quella grande massa e mi sorride serena.
Pelle scura, vita stretta ed occhi profondi colmi di gioia e malinconia, nonché di quella rara qualità nella donna di riuscire ad essere complice dell’uomo. È in Marocco da un paio di mesi, una visita per scoprire il Paese che i genitori lasciarono per emigrare in Olanda, lì dove è nata lei.
«Alle donne i tassisti chiedono sempre di sposarle»
«Oh, dev’essere proprio una seccatura per una donna viaggiare da sola»
«Basta stare al gioco! Oh, certo che ti sposo, ma sono esigente! Gli dico che poi per me devono fare questo e poi anche quello… alla fine il tassista dice che non gli conviene più, ridiamo insieme e finisce lì»
Oh, Mina, voglio sposarti anch’io.
Finita la colazione ci diamo appuntamento a Marrakech ed usciamo chi per la spiaggia (lei) chi per un’esplorazione urbana (io).
L’idea di fare lo sporcaccione con Mina è una bella premessa per la mia prossima tappa in Marocco. L’idea mi mette di buon umore, ma dopo un’ora di camminata comincio a sentirmi male. La leggera nausea che avevo da appena sveglio è aumentata così tanto da non poterla più ignorare, anzi… devo accovacciarmi in strada per combattere contro la bassa pressione e riprendere fiato. I miei piani erano pranzare con una grigliata di gamberetti (Essaouira è sull’oceano), ma adesso soltanto l’odore del cibo mi da il voltastomaco.
Torno all’ostello e mi stendo per una mezz’ora sperando che la nausea mi passi. Sono le due del pomeriggio e ho l’autobus tra un’ora.
Quando la sveglia suona, alle due e mezza, scatto in piedi e mi rendo conto di stare peggio di prima. Mina nel frattempo è tornata dalla spiaggia, mi guarda e sorride di nuovo.
«Com’è andata? Hai fatto delle belle foto?»
«Oh sì… cioè, no… oh, credo di stare male…»
La stanza comincia a girarmi vorticosamente attorno, metto una mano davanti alla bocca e corro in bagno a rovesciare il tagini di ieri sera. Ho pure lasciato la porta aperta, così da fuori si sente il rumore di me che vomito come se non ci fosse un domani.
Esco dal bagno e Mina ovviamente è sparita per sempre.
Raccolgo la mia roba e mi affretto verso l’autobus. Mettersi in viaggio nelle mie condizioni non è proprio una buona idea, ma non voglio restare a Essaouira: qui a parte mangiare e farsi le foto a cavalcioni dei cannoni del forte non c’è molto da fare. Va tutto liscio per gran parte del viaggio, l’autobus fila lungo l’autostrada senza troppi sobbalzi o curve, ma la nausea si fa comunque sentire di nuovo. Cerco di rilassarmi, di tenere lo sguardo sull’orizzonte, l’attenzione sul mio respiro… finendo per addormentarmi. Per la seconda volta vengo svegliato da conati di vomito. Mi giro verso un altro passeggero per chiedergli di farsi dare un sacchetto per me, ma non oso aprire la bocca. Mi alzo e vado a sedermi nella buca a metà del bus, quella con la porta posteriore. Lì comincio a vomitare flotti di liquidi più i residui del tagini che non avevo vomitato al mattino. Il bigliettaio accorre con uno spruzzino ed una busta di plastica. Mi alzo dopo un paio di minuti e lo guardo imbarazzato.
«Je suis désolé»
Torno a sedermi nell’indifferenza generale e dopo una mezz’ora l’autobus finalmente arriva alla Gare de routière, il terminal del bus. Scendo, faccio giusto in tempo a respirare l’aria calda e inquinata di Marrakech che vengo avvicinato dal primo scocciatore.
«Taxi? Tassi?»
«No, merci»
«My friend, hey! ¿espanhol? Where do you go?»
Oh, se solo sapessero il rischio che corrono a farmi salire sui loro taxi. Ignoro il tizio, più un altro paio di dubbi altruisti e m’infilo nel mercato. Quando le bancarelle lasciano lo spazio a portoni e botteghe sono vittima di un nuovo approccio.
«The road is closed!»
(La strada è chiusa!)
Faccio finta di niente e procedo spedito domandandomi se tizio abbia ragione, ma scorgo un paio di macchine venirmi incontro dal fondo e decido che è una balla. Al terzo «the road is closed!», forte degli avvertimenti letti sui blog prima del viaggio, capisco cosa succede: chi lo dice cerca di convincermi a seguirlo per farmi da guida e poi chiedermi un ‘compenso’ per il suo tempo. Google maps non segna nemmeno la metà di quell’intreccio di vicoli e stradine che costituiscono il centro della città, ma quelle che vedo sono sufficienti per potermi orientare fino all’ostello. Fanno quaranta gradi, lo zaino mi fa sudare le ultime gocce d’acqua che ho in corpo, ho fame, sonno e mi girano pure i coglioni.
Arrivo a destinazione letteralmente allo stremo delle forze. L’omino dell’ostello è simpatico e accogliente, vuole spiegarmi i servizi e bla, ma non riesco a seguirlo, né a stare in piedi.
«possiamo fare questa cosa dopo? Non sto bene»
Lui capisce e mi fa strada in camera. Ringrazio, mi butto nel letto, bevo dell’acqua e cerco di dormire. Dopo una buona mezz’ora passata a contorcermi e maledire il mal di testa un suono improvviso irrompe in camera.
ALLAAAAAAHHHHHH
«ma che c…»
Mi sollevo e realizzo che sono le undici passate. Il rumore è una registrazione dell’Azan, il canto che avverte i fedeli che è arrivato il momento della preghiera.
L’ostello si chiama Hostel Madrassa (ostello scuola coranica) il che suggerisce che l’edificio originale sia stato costruito proprio di fianco ad un minareto, o viceversa. L’architettura è sul modello di una riad, con le stanze che si affacciano tutte su un cortile interno e sono collegate tra di loro da ballatoi con ringhiera.
, una casa tradizionale con un pozzo luce che illumina il cortile interno ed una serie di ballatoi attorno che servono da corridoi. Ogni suono cade dall’alto e risuona dappertutto, diffondendosi nei dormitori. Lo strazio va avanti per almeno un minuto, poi finalmente finisce e prendo sonno. Nella mia ingenuità speravo di dormire fino al mattino, ma già a mezzanotte mi sveglio in preda ad nuovi conati. Il bagno è proprio dietro una delle porte del ballatoio al primo piano. Salto giù dal letto e cammino spedito verso il lavandino quando inspiegabilmente mi ritrovo a terra che mi vomito addosso. Mi sollevo e continuo a vomitare nel lavandino. Ma porc… che sono svenuto? Il dolore al braccio mi suggerisce di sì.
L’omino dell’ostello mi raggiunge sul ballatoio. Non lo vedo, ne sento solo la voce mentre tengo la testa nel lavandino. Lui cerca di rendersi utile, mi chiede come sto. Rigurgito un’ultima volta, mi sciacquo la bocca e il volto con dell’acqua: sono pronto per dormire.
Mi trascino a letto e ci resto fino all’alba, quando il primo Azan del giorno sveglia l’intera clientela, infine sonnecchio fino alle nove. Ormai sono a secco da ventiquattr’ore e ho la lingua come un tizzone ardente, ma col cacchio che ingurgito una qualsiasi cosa. Scendo a parlare con l’omino dell’ostello, Abdul, gli chiedo scusa per il delirio sul pavimento e lui mi mette a mio agio.
«okay, my friend! You good?»
Il Sole ricomincia a scaldare la città. I venti gradi della notte diventeranno quaranta entro le ultime ore del pomeriggio. Ho solo due notti a Marrakech, così decido di affrontare il giorno senza preoccuparmi troppo delle mie condizioni: un passo lento e un paio di limonate ai chioschi della frutta faranno il resto.
I turlupinatori di ieri si sono moltiplicati fino ad occupare ogni angolo del centro. Mi chiedono da dove vengo, se voglio comprare qualcosa e che the road is closed. All’inizio dico di no, no… noooo (porcodio), no… poi per intrattenermi comincio a contare i seccatori come nella barzelletta di Gigi Proietti: invece di dire no al primo gli rispondo «uno!», al secondo «due!» e così via. È una svolta: i turlupinatori contano sulla mia reazione per continuare il loro teatrino, ma non capiscono cosa dico e restano spiazzati. Tra un numero e l’altro visito il palazzo di Bahia, («cinque!») salto il museo dei tappeti che francamente… e raggiungo la Madrassa di San Joseph, («tredici!») dall’altra parte del centro, ma è chiusa per restauro. No vabbè, ma che ho fatto nella mia vita precedente per meritarmi tutto questo? Non solo sono andato in bianco, ma infierire così? Visito un archivio della fotografia («diciotto!») e torno all’ostello.
Non solo lo stomaco si è calmato, ma adesso reclama cibo! Come dirgli di no?
Faccio una doccia e riposo ancora un po’, poi mi affaccio al cornicione del ballatoio in cerca di nuove amicizie. Una ragazza dai capelli rossi e corti, il visino affilato e gli occhi grandi, azzurri e rotondi mi guarda e sorride. Mi sento decisamente meglio.
Scendo a fare quattro chiacchiere e lei non mi stacca gli occhi di dosso. Credo di fare lo stesso anch’io. Alle volte il desiderio è scritto in faccia ed è inutile cercare di nasconderlo.
«Forse ho trovato un posto dove si mangia davvero bene, e per niente turistico! ti va di andarci?»
«Oh, io e la mia amica abbiamo mangiato qualcosa, ma…»
La ragazza dai capelli rossi sta quasi per finire la frase quando la sua amica si avvicina. Questa però si esprime a monosillabe senza guardarmi in faccia ed ha un’espressione assente ed ostile… è la classica guastafeste, la tipa segretamente invidiosa delle grazie della sua compagna di viaggio, perennemente scazzata e fastidiosamente protettiva come solo le ipocrite possono esserlo.
Anche Abdul si avvicina, mi chiede come sto.
«oh, ho una fame da lupi!»
«Non più vomiti?»
Sì, vabbe’… grazie Abdul.
«no, ‘non più vomiti’»
Capelli Rossi guarda l’amica che adesso sembra avere la merda in bocca e risponde:
«Oh, credo che restiamo in ostello»
«Abdul (mortacci tua) e tu che fai? Ci vieni a mangiare un boccone?»
«Sì, sì, dammi un momento»
Ah, canaglia.
Doccia, maglietta con colletto ornato in stile Djellaba (il vestito da uomo marocchino) e turbante. Usciamo dall’ostello e qui Abdul mi insegna una scorciatoia per Jemaa el-Fna, la gigantesca piazza al centro di Marrakech. Chioschi di carne alla griglia, incantatori di serpenti, venditori di cianfrusaglie sbrilluccicose, disegnatrici di Henna, concerti di Gwana, deliri accidentali e baraonde organizzate. Jemaa el-Fna è caotica ed organica come un festival di musica elettronica, ma senza droghe.
La fermata della circolare è proprio davanti il minareto della moschea Koutoubia e qui mi rendo conto che Abdul è nervoso.
«tutto ok?»
«Sì, sì…» L’autobus si ferma ed apre le porte proprio davanti a due poliziotti. «oh, fai finta che parli Arabo» Dice lui fingendo di scherzare.
Le porte si chiudono.
«no, vabbè Abdul, ma che sei clandestino?»
«No, io berbero!»
«Ebbe’? Che ai marocchini i berberi stanno antipatici? (i berberi sono una minoranza etnica)»
«Oh, no… no problema! Uh, siamo arrivati?»
«La prossima»
Scendiamo dal bus e in un paio di isolati siamo già al ristorante. Ci accomodiamo ad un tavolo e Abdul si siede di fianco a me. Lì per lì penso che sia un’abitudine locale, come quella di tenersi per mano tra uomini e lascio fare senza dire niente, poi però noto che gli altri ospiti siedono uno di fronte all’altro. Forse Abdul vuole poter parlare senza essere ascoltato.
Il cameriere ci porta un piatto di lenticchie e del pane, alche io, forte delle storie sui raggiri nei ristoranti (tra condimenti non richiesti pagati a parte e il trucco del doppio menù) gli chiedo se tutto questo è un extra. Il cameriere dice di no, si gira e sbatte i menù su un tavolo vicino in segno di offesa: sono un maleducato: siamo in una zona benestante, lontana dalle truffe del centro.
La cena è grassa e squisita. Come antipasto ordino un Pastilla (o Bastila), dolce e leggermente salato con una sfoglia croccante e friabile. Una cosa favolosa… in futuro mi basterà nominarla ad un qualsiasi marocchino per stimolare una conversazione sulle prelibatezze locali. Il secondo è uno stufato di carne d’agnello (Tangia) e per Abdul un tagini con prugne, mandorle e miele (Mrouzia) che costa una sciocchezza (nemmeno quattro euro), ma ne vale almeno il doppio.
Abdul vorrebbe mangiare afferrando il cibo con dei pezzi di pane (come si dovrebbe fare con questi piatti), ma davvero non è a suo agio, così prepara il boccone e lo infilza con la forchetta prima di metterselo in bocca.
Quando alla fine il cameriere ci porta il conto, lo tiene in mano senza mostrarmelo ed esclama «Mille dihram!» (Cento euro!) per prendermi un po’ in giro.
Usciamo dal ristorante soddisfatti e qui finalmente Abdul mi spiega il suo nervosismo di prima.
«La polizia qui mi vede con te e pensa, ah, io sono una guida! Mi dice, eh, dove la maglietta? Hai la maglietta da guida?»
«Ma che cavolo dici, siamo amici!»
«Loro dicono no, voi no amici, tu guida! Se esco a prendere i turisti per l’ostello, oh, loro si perdono sempre, e la polizia mi ferma»
Abdul mi racconta una serie di situazioni, sventure e aneddoti… parla per almeno mezz’ora.
«Un Americano…»
«Stati Uniti?»
«Sì… arriva all’ostello con tutti questi ragazzini dietro e loro vogliono i dirham»
«ma chi, the road is closed?»
«Sì, quelli! E tanti ne sono! L’americano è stupido, mi dice chiudi la porta!»
«E tu?»
«E io no, non chiudo la porta. Poi i ragazzini urlano, battono, svegliano tutti quanti! Allora dico, no, adesso paghi. L’americano è arrabbiato con me, mi dice chiudi, chiudi! Ma io no… tu paghi. Lui da cinquanta dirham ad un ragazzino e gli altri protestano. Io allora dico no, adesso andate via! Chiudo la porta e l’americano è ancora arrabbiato. Dice, il Marocco è uno schifo! Che la gente è brutta! Che fa schifo! Così io gli dico, ah, io non sono marocchino, sono berbero!»
Rido.
«Poverino, non è riuscito nemmeno ad offenderti!»
«Stupido, davvero stupido»
Prendiamo un taxi per tornare in piazza e qui Abdul confabula con l’autista perché lui non ha acceso il tassametro. A sua detta potrebbe anche chiamare la polizia per questo, allora l’autista lo accende, ma in ritardo. Il costo della corsa si riduce a nemmeno un euro, da dividere in due, così l’autista chiede ad Abdul se io sono con lui o da solo (qui i taxi vengono divisi anche tra sconosciuti). Abdul ovviamente gli risponde che siamo insieme e l’autista fa schioccare la lingua in segno di disappunto, perché non può rifarsi con me. Percorriamo l’ultimo chilometro fino all’ostello a piedi, saluto, ringrazio della buona compagnia e mi metto a dormire beatamente.
Il giorno seguente sfrutto il canto dell’Azan per svegliarmi presto. Voglio visitare il Jardin Majorelle prima che i turisti ne invadano i percorsi. Appena oltre l’ingresso c’è una fontanella con dell’acqua che trabocca in una vasca più grande all’altezza dei piedi. Il giardino è un spettacolo per varietà di piante… Palme, cactus, cespugli e ninfee provenienti dal sud America, dal Giappone. Messico, sud Africa e Cina. Alcuni cactus sono una massa spinosa che si eleva a non più di cinquanta centimetri dal suolo, mentre altri sono cresciuti fino a cinque metri. Alcune palme sono tozze e dal tronco panciuto, altre di stagliano snelle e pacifiche nell’azzurro del cielo.
Il giardino fu progettato da Jacques Majorelle nella prima metà del novecento, ma fu abbandonato qualche decade più tardi. Quando Yves Saint Laurent lo acquistò negli anni sessanta era ad un passo dalla demolizione. La struttura adesso ospita anche un museo berbero con utensili, costumi e gioielli che vale la pena di vedere. Non è particolarmente grande, ma i soli gioielli meritano di essere ammirati.
Torno in giardino e cammino con calma, ignorando gli altri visitatori che si fanno le selfie o si mettono in posa per Instagram. Alcuni camminano scrivendo su WhatsApp e io mi chiedo che ci sono venuti a fare in questo pezzo di paradiso. Passeggio per un’oretta, poi lascio il giardino a malincuore.
Cammino una decina di minuti e vengo fermato da un signore che parla un po’ di italiano. Mi dice che c’è un mercato nella Medina dove i mercanti si riforniscono della merce che poi vendono in centro. «Vado nella stessa direzione» mi rassicura lui per farmi capire che non vuole denaro. Il trucco è proprio questo: camminiamo insieme e abbasso la guardia, così quando lui incrocia “per caso” un amico, mi dice che mi ci porta lui al mercato. Io lo seguo tranquillo e lui prima mi fa zigzagare nei vicoli, poi mi porta in un negozio di tappeti e borse di pelle: il tempio dell’insistenza.
«e il mercato berbero?» Chiedo io.
«Oh, ici c’est comme au marché!»
Finalmente capisco la situazione è mi rifiuto d’entrare, stringo la mano al signore e gli dico che continuo da solo.
«Le marché Berber!»
Il mercato berbero di tua nonna. Gli do dieci dirham per togliermelo dalle scatole e torno sui miei passi mettendo alla prova il mio orientamento. La macchina fotografica intanto resta a corto di batteria ed non ho altri desideri che mangiare del tagini e tornare all’ostello per ripararmi dal caldo torrido.
Torno al ristorante del giorno prima, quello dove ho mangiato con Abdul e poi finalmente in ostello dove saluto e preparo il mio zaino per partire. Abdul è triste, vorrebbe che mi fermassi un’altra notte. Guardo la ragazza dai capelli rossi che è lì nel cortile.
«anch’io Abdul, anch’io…»
Ci scambiamo i contatti, ci abbracciamo e sono di nuovo in strada. Passo attraverso Souk Semmarine (il bazar appena a nord di piazza Jamee el-Fna) e arrivo alla stazione del bus alle quattro in punto. C’è un autobus fatiscente con su scritto “Agadir”, la mia destinazione, che sembra in procinto di partire. Entro di corsa e mi rivolgo all’autista.
«Agadir, now?»
«Yes now»
Pago, mi siedo e comincio ad aspettare. L’aria condizionata ronza impazzita sopra la mia testa e il corridoio diventa una succursale del bazar. Non esagero… una decina di ambulanti salgono a vendere acqua, altri dieci batterie da viaggio per ricaricare il cellulare, e poi ancora dieci che vendono snack. L’autista spegne l’aria condizionata ed io non ho più alternative che mordere la foglia. Inutile protestare. Quando l’autobus parte assisto ad un litigio tra bigliettai. Non capisco il motivo del disaccordo, ma mi sembra inevitabile date le modalità di vendita dei biglietti: i bigliettai girano per la stazione con i loro bei blocchetti validi per credo ogni autobus. Quando il passeggero sceglie su quale salire paga altri dieci dirham per il posto a sedere. Insomma è una gara per vendere i biglietti.
Ascolto un po’ di musica, leggo un libro (In questa Italia che non capisco, di Mark Twain), ma ad un certo punto l’autobus inchioda i freni e sbanda sul ciglio della strada. Tutti si sporgono a vedere che è successo e vediamo un uomo alto e magro rannicchiato a terra che si copre il volto con le mani. Credo che non abbia visto l’autobus (che ha rischiato di investirlo) e adesso è paralizzato dallo spavento. I bigliettai scendono dall’autobus, raccolgono delle pietre da terra e lo cacciano a sassate ed insulti per averli fatto rischiare un incidente. Roba da pazzi. Tornano sull’autobus a petti gonfi, orgogliosi della loro reazione fascista.
L’autobus riprende la sua marcia. Poco più avanti una pattuglia della polizia sta facendo una contravvenzione ad una vettura. Una donna in lacrime cerca di calmare il marito mentre lui inveisce come una furia contro i poliziotti. Presto la sera cala sul paesaggio secco e montuoso della campagna marocchina e assiepa le emozioni dei passeggeri. Quello affianco a me prova a chiacchierare in francese, che io non conosco se non per poche parole, poi mi mostra un video in inglese di un comico marocchino: il suo modo di essere socievole. Mi faccio un po’ di risate guardandolo e proprio quando sta per finire l’autobus arriva a destinazione.
Agadir è stata la prima tappa del mio piccolo loop nel Marocco. Sono contento di poter tornare al mio ostello a Tamracht (il Lunar Surf House, che consiglio caldamente), anche perché è lì che ho dimenticato le mie flip-flops. Se ne sono andati tutti quelli che conoscevo a parte una ragazza di cui però non ricordo più il nome, ma solo per essere amichevole. Il Marocco sembra attirare un buon tipo di turisti, almeno per quel poco che ho visto. Un paio di resoconti di viaggio alla sera e di saluti al mattino ed ecco che sono di nuovo in strada in direzione dell’aeroporto.
Oh, non voglio partire! Ci sono ancora piatti che non ho assaggiato, persone che non ho conosciuto, ragazze che non ho importunato! Il tempo è tiranno, per non parlare del mio tempismo in quest’ultima settimana di viaggio.
Il tassista che mi riporta in aeroporto parla delle nazionalità europee.
«Italiani sono meglio. Sempre vogliono ridere, scherzare e gentili, buone maniere. Francesi, oh…»
Mette un dito sotto al naso e solleva leggermente la testa. Vuole dire snob.
«Proprio l’altro giorno ho letto che i francesi sono come gli italiani, però noiosi»
Il tassista ride.
«Sì, sì, giusto»
«E i tedeschi?»
«Oh, tedeschi seri, sempre vogliono litigare…»
Fa la faccia dura.
«Dove torni in Italia?»
«Ma quale Italia, vivo in Germania!»
«Ohhh»
«Eh già… ‘ohhh’»
Più cerco di non pensarci, più mi rendo conto che i miei giorni in Cruccolandia devono finire al più presto. Ho bisogno di gente che parla col cuore, magari un po’ confusionaria ma vera, positiva e sorridente. L’autista mi saluta stringendomi la mano e mi invita a tornare in Marocco al più presto.
«Inshallah!» Gli rispondo io per alimentare il suo buonumore. Salgo sull’aereo, decollo e penso a dove andare per le prossime vacanze.
CANZONE DEL GIORNO: Hamid El Kasri – La illaha illa Allah
Agadir
Per una sorta di scaramanzia tutta mia cerco di far passare quanto più tempo possibile tra il momento l’atterraggio e la prima fregatura, mi piace credere che porti bene.
Fuori dall’aeroporto ci sono i taxi a tariffa fissa che portano ad Agadir per l’equivalente di venti euro, ma l’autobus per Inezgane (un villaggio in periferia) costa solo quaranta centesimi, così passo i cancelli e mi metto ad aspettare sul ciglio della strada. Ci sono più di trenta gradi, secchi e una leggera foschia che smorza l’effetto dei raggi del Sole. Un giovane tassista si avvicina, abbassa il finestrino e cerca di tirarmi su per qualcosa come quindici euro.
«Centocinquanta (dirham)»
«Cento?»
«…cinquanta»
«Naaa, aspetto l’autobus, ne costa solo quattro!»
«Oggi molto caldo, autobus lento, tu aspetta due ore!»
«non ho fretta»
«Centoventi»
«Cento»
«…venti»
«No, ciccio, aspetto il bus»
Tolgo i gomiti dalla portiera e faccio per allontanarmi.
«ok, ok, cento!»
Funziona sempre.
Il tassista si chiama Zaccaria, ha venticinque anni, la bisnonna siciliana ed una figlia che si chiama Lina.
«Nome arabo, significa, uh….»
Zaccaria si guarda intorno e mi indica una palma al centro della rotatoria che stiamo percorrendo. Sbanda ed un’altra macchina suona il clacson.
«ah, guidi come noi italiani, bravo bravo… ok, quindi Lina significa palma?»
«Palma del paradiso, dal Corano! conosci…»
E come no, lo leggo tutte le sere prima di dormire.
Zaccaria adesso mi chiede se sono sposato. Questo è un tema ricorrente coi Marocchini, anzi con gli Arabi dal Marocco all’Egitto. Parliamo ancora un po’ del più e del meno, poi gli chiedo dove mangiare. Lui dice una parola che sembra “McDonald”. Chiedo di nuovo per essere sicuro di aver capito bene.
«McDonald, McDonald!»
«Zaccaria, tu McDonald, io Agadir!»
«non mangia?»
«mangia, sì, ma non McDonald! Un posto di cucina locale»
«conosco!»
«però buono, non mi portare dai tuoi amici»
«porto a ristorante di mio padre»
«seee, Zaccaria… portami ad Agadir.»
Finalmente arriviamo a destinazione: la stazione dei taxi a due chilometri dal centro. Scendo dalla vettura, saluto e continuo a piedi.
Il giorno è luminoso e il vento mi fa camminare con la fronte corrucciata, dandomi così l’espressione burbera di chi non vuole seccature. Sono un po’ prevenuto per via delle fregature di cui ho letto nei vari blog.
Passo davanti ad una bettola con macelleria annessa. I clienti comprano la carne e un tipo l’arrossisce sulla griglia, proprio come fanno d’estate dalle mie parti. Compro una fetta di manzo (un etto a tredici dirham) e quattro costolette di agnello. Pane, insalata di cipolla e pomodori e servizio inclusi, ma gli do un po’ di mancia. La valuta qui è un conveniente uno a dieci, virgola qualcosa, il che semplifica i calcoli.
Mentre mangio parte il canto dell’Azan (il raduno alla preghiera) e sul marciapiede di fianco un gruppetto di venti persone si mette in ginocchio dandomi le spalle. Tra loro c’è un ragazzino di forse sei anni che invece di inginocchiarsi si spaparanza a terra e poi si rialza. Che buffo. Quando il canto finisce sto ancora sgranocchiando l’ultima costoletta.
Riprendo a camminare, prendo un caffè espresso (buono!) e arrivo al Jardin d’Olhão, uno dei pochi posti che ho segnato da visitare in città. Il giardino è così così, l’unica cosa degna di nota è lo strano muretto al centro, tutto curvo e spigoloso. È stato tirato su cementando insieme tantissime scaglie di pietra. Le colonne dell’ingresso del parco sono state costruite secondo la stessa tecnica, così come alcune parti di una casa di fianco al muretto, che però sembra essere stata abbandonata incompleta.
Agadir non sembra avere molto da offrire al turismo. Ci sono alcuni scorci carini, tipo dei portoni in legno intarsiato con decorazioni islamiche e il porto, il resto è stato ricostruito dopo il terremoto del ’60.
Quello che mi regala però è l’immagine dei marocchini che passano il pomeriggio al mare. La spiaggia è piena di ombrelloni, quad e tavole da surf. Donne col chador insieme a ragazze in burkini e bikini! Ragazzi in pantaloncini che passeggiano a torso nudo. Persino ad un laico come me tutto questo appare molto più civile che in una qualunque spiaggia europea che si affaccia sul Mediterraneo.
Io ho ancora lo zaino addosso e pure i pantaloni lunghi, perché pensavo che i pantaloncini fossero poco appropriati. Trovo la fermata del bus e cerco di capire come arrivare a Tamracht, la località a venti chilometri da Agadir dove c’è il mio ostello. In strada intanto sfrecciano una quantità di vecchie Mercedes arrugginite che sono pronte per lo sfascio. Una di queste di ferma di fianco a me e l’autista mi chiede dove vado.
«Tamracht!»
«oui, d’accord»
Fa un cenno con la mano e il passeggero seduto sul sedile anteriore apre lo sportello e mi fa posto. Io d’istinto cerco di sistemarmi dietro, ma ci sono già quattro persone strette le une alle altre.
«oh…»
E tutti ridono.
Mi stringo con loro e ripartiamo tra le resistenze della macchina che vibra, ronza e scoppietta nubi nere da buco dell’ozono.
Dopo qualche minuto di corsa comincio a sventolarmi la mano sul volto. L’autista mi da un colpetto al braccio e mi passa la manovella del finestrino.
«clima» dice lui è tutti ridono di nuovo.
Infilo la manovella nel piccolo perno in metallo che sporge vicino al bracciolo e abbasso il finestrino. Questo risolve il problema della temperatura, ma fa anche entrare il forte odore di pesce che si sprigiona dal porto al di sotto della strada che stiamo percorrendo. Chissà che l’autista non abbia pure delle mollette per il naso.
Dopo venti minuti arriviamo all’ostello e il taxi prosegue la sua corsa verso Tagazout. Qui incontro gente di tutti i tipi, ognuna con la propria storia da raccontare.
Una ragazza dell’Arizona disegna buffi personaggi in acquerello per illustrare racconti per bambini. Fa tutto con così tanta calma e meticolosità da sembrare in tutto e per tutto come una meditazione, o la pratica del mandala.
«ero in questo ostello in Indonesia che stavo disegnando per i fatti miei…» Mi spiega. «quando una signora si avvicina, vede quello che faccio e mi chiede se voglio illustrare le sue storie… questo sarà il terzo libro che faccio con lei»
Mi mostra le bozze e le tavole che ha già preparato, buffe e colorate. Disegna i vari personaggi e gli oggetti separatamente, poi li ritaglia, lì fotografa e li compone al computer.
Sarebbero tante le persone da raccontare ancora, ma anche noioso cercare di farlo. Mi limito a questa. Domani mattina ho yoga e la lezione di surf. Che la vacanza abbia inizio!
P.S. Ho dimenticato il cavetto del cellulare a Berlino, è il mio subconscio che cerca di comunicare.
PAROLA DEL GIORNO: Jazakum Allahu Khairan (May Allah reward you)
Toc Toc, Ist die Polizei
Toc toc
Non è nessuno, Davide, continua a dormire.
Toc toc
«Ist die Polizei.»
Ah, cazzo, lo sapevo… Nemmeno cinque minuti prima qualcuno aveva suonato il citofono, poi li avevo sentiti parlare di Wohnung (“appartamento”). «Wohnung questo, Wohnung quello, bla bla bla»
La mia coinquilina col C-PTSD faceva domande su domande e ad ogni risposta dei poliziotti annuiva bassa, insoddisfatta. Lei mi vuole fuori di qui e intendo alla svelta.
Toc toc
«ja?»
Mi tolgo la fascia dagli occhi (la metto sugli occhi per dormire, che qui d’estate fa giorno alle quattro) e due poliziotti con tanto di walkie-talkie, pistole e spray al peperoncino entrano nella mia stanza. Io sono ancora sotto le coperte, li guardo a testa in giù oltre la testata del letto.
«eh, guten tag to you…» Dico io, in onore dell’assurdo.
Mi stropiccio la faccia e continuo in tedescoide. «è la prima volta che vengo svegliato dalla polizia»
«la sua coinquilina ci ha chiamato»
«sì, sì» Mi metto in piedi, sono in mutande. «uh, andiamo in cucina.»
Mi siedo al tavolo, ma ho la bocca impastata e non riesco a parlare. Maledetta vodka, ieri l’ho bevuta in tutte le salse… col mate, con la redbull, e adesso non ho più saliva. Mi alzo di nuovo e mi riempio un bicchiere d’acqua.
«sono uscito ieri sera…» Dico per prendere tempo. «ho fatto un po’ tardi.»
I poliziotti annuiscono.
«ok… uh, allora?»
«sì, la sua coinquilina ci ha chiamato. ha detto che lei è aggressivo»
«aggressivo?»
Aggressivo, penso. No, la mia coinquilina non mi ha mai visto aggressivo: si sarebbe accorta della differenza.
«non l’ho toccata nemmeno con un dito» Rispondo io.
Bevo un altro sorso d’acqua e penso a come spiegargliela nel modo più breve.
«la mia coinquilina ha un disturbo post-traumatico da stress, complesso. da quando vivo qui è andata in clinica due volte. prende psicofarmaci, non lavora da due anni, un mese fa ho bussato in camera sua per chiedere se voleva mangiare insieme e lei era lì che fissava il muro e piangeva.»
I poliziotti ascoltano in silenzio, annuiscono. Le mani si staccano dai fianchi e i due finalmente rilassano le braccia.
«oh, sì, vivo anch’io in un appartamento in condivisione» Dice uno dei due.
Anche l’altro poliziotto interviene. «è così difficile trovare casa a Berlino»
«e io la sto cercando, eh» Continuo a dire io. «ma adesso vivo qui, che faccio? non me ne posso andare in ostello perché la mia coinquilina ha deciso che mi odia»
Uno dei due poliziotti va da lei in camera sua. L’altro resta con me, mi chiede da dove vengo e mi dice lui è della Turchia.
«quando ci chiamano… dobbiamo venire» Dice come per scusarsi. Il collega intanto ritorna in cucina. Due mi salutano e se ne vanno.
Peccato, proprio adesso che stavamo per fare amicizia.
Mi siedo e cerco di capire come siamo arrivati a questo punto. La mia coinquilina è una tipa con ovvi problemi relazionali. Ha quarant’anni e pesa quaranta chili. Il suo migliore amico è il suo gatto che ha chiamato Gatto… sì, Gatto, come se io chiamassi mio figlio Figlio. In realtà “gatto” in tedesco significa anche “sbornia”, il che da al nome una connotazione più intelligente, ma giacché la padrona adesso mi stai irrimediabilmente sulle palle, odio pure il suo gatto Gatto.
Adesso che ci penso è iniziato tutto per colpa sua. Anni fa un ciccio maldestro lo ha calpestato un paio di volte, così adesso Gatto si acquatta ogni volta che incrocia qualcuno, aspetta fino all’ultimo momento e poi corre via a rintanarsi. Se Gatto non avesse bisogno di bere o mangiare starebbe tutto il tempo chiuso in camera con la padrona, con lei che la pompa di zaffate d’erba. Uno studio afferma che gli animali domestici adattano il loro stile di vita con quello dei padroni raggiungendo una sorta di simbiosi. Insomma, la follia del quadrupede è un riflesso di quella del bipede.
Le cose, nonostante tutto, sono andate relativamente bene fino ad un paio di settimane fa, quando una discussione sui piatti sporchi è degenerata inspiegabilmente in teorie gender e discriminazioni razziali.
«i piatti sono sporchi, li laviamo?»
«tu mi attacchi perché sono Curda»
No, brutta stronza, voglio solo che pulisci i piatti.
Una volta che la polizia lascia l’appartamento, vado dalla coinquilina e le dico che dobbiamo parlare. Lei però non vuole parlare, sempre che questo abbia un residuo di senso. Fino a un quarto d’ora fa voleva solo che la polizia mi buttasse fuori a randellate. Alla fine lei esce di casa e così faccio anch’io.
Poco sonno, troppo alcool, troppa agitazione. M’infilo in palestra e in mezz’ora faccio 2 km di corsa, 150 Wall ball e 75 Toes-to-Bar. Allo scadere del tempo mi accascio a terra e disegno il mio profilo col sudore. Sono così cotto che ormai non penso più a nulla.
Esco dalla palestra e prendo uno schwarma in una bettola nei dintorni di Boxhagener platz. L’omino al bancone mi chiede da dove vengo.
«Italien»
«ah, allora parlo l’italiano…» Dice lui. «Io vissuto a Roma, Venedig… oh, Venezia… Paduva»
«ma dai, anch’io vivevo a Roma! che facevi?»
«a Venezia, oh, Ca’ D’oro… restaurante di lusso, eh»
«vabbe’, sì, e a Roma?»
«a Roma… Ali Babà»
«Alì B… quello grande nel piazzale dei bus?»
«sì!»
«ma io ci andavo sempre da Ali Babà!»
Lui ride contento e mi offre un bicchiere di tè nero, con la salvia in infusione.
«Italia, uh… giù» Stende la mano e la fa scivolare nell’aria. «Germania, invece, soldi, soldì, però…» Alza un indice nell’aria, poi prende a contare con le dita «clima, persone, lingua… uhhhh, no bene»
Bevo un altro sorso del suo tè squisito.
«sono d’accordo, amico mio, sono d’accordo.»
CANZONE DEL GIORNO: Toto Cutugno – L’Italiano
Giovedì Santo
You never, never trust the people that you love!
– Tuco Salamanca (Breaking Bad S2E2)
Forse l’ho solo sognato.
così penso,
così spero,
ma il preservativo è sul pavimento.
cazzo.
Cancella le tracce,
raccogli i vestiti,
e butta quel cazzo di preservativo;
la lista delle cose da fare questa mattina.
buongiorno.
Forse non fatto quello
che so d’aver fatto,
forse è come quella volta che da bambino
ho sognato di svegliarmi
e poi mi sono svegliato ancora.
Basta!
Basta!
però
che corpicino…
e quanta cura, quant’esercizio!
Vorrei solo che non mi chiamasse.
fallo al più presto,
mio dolce agnellino,
mi chiamerò maldestro
che è pur sempre meglio di stronzo.
Una mosca si dispera
contro un muro di vetro.
Io resto immobile a guardarla
e invece di aprirle la finestra
resto seduto, e mi assolvo con la poesia.
PAROLA DEL GIORNO: Eudemonismo (dottrina che assume la felicità come principio e fondamento della vita morale)
Umiltà
He was known as a humble man,
but humble in that way that says:
“my humility makes me better than you”.
The New Love
In the kitchens of love, after all, vice is like the pepper in a good sauce; it brings out the flavour, it’s indispensable.
– Louis-Ferdinand Céline (Journey to the End of the Night, 1932)
I met this girl. We kissed and as if it was the obvious thing to do soon we did all the rest. It wouldn’t know how to describe her though. Sometimes she was blonde, then brunette, then blonde again. She also had dozen of names… you get the point.
We kissed and while doing so she gave a perky moan. He’s a good kisser, she might have thought, it is promising. A good and tasteless kiss. Not the pungency of desire, nor the salt of passion, just a proper one, as in the unwritten textbook of the good lover.
I guess this is how kisses taste like when you become an adult and nothing is much of a surprise anymore, for everything has been already tried once before. Maybe this is the way for the soul to find some sort of peace, and yet so awfully ordinary.
Faded, as a thousand years old masterpiece.
SONG OF THE DAY: O Mundo é um Moinho, Cazuza
Angkor Thom
Stamattina mi sono spostato al Funky Flashpacker, l’ennesimo ostello baraonda pieno di pischelli. Noleggio una mountain bike alla reception ed è un affare! La bici costa solo un paio di dollari in più di quella di ieri, ma è nuova di zecca: copertoni immacolati, freni a disco, sospensioni cariche e marce che scattano con un tocco, come rane in uno stagno minato.
Oggi visito Angkor Thom, un complesso dieci volte più esteso di quello di ieri. Supero l’ingresso di Angkor Wat e mi infilo in un sentiero in terra battura avvolto nella vegetazione. Percorlo con questa bicicletta è una figata! Sto cercando di raggiungere Phnom Bakheng. La strada sarebbe un’altra, ma il sentiero pare essere collegato proprio alle spalle… ehhhhh, no.
Una specie di leone indica un percorso inesistente. Mi metto la bici in spalla e mi inerpico fino alla strada in cima bestemmiando e sudando senza ritegno. Il percorso arriva fino ai piedi di un piccolo ponte, segno che ho percorso lo scolo naturale dell’acqua piovana che scende dalla collina.
Mi rimetto in sella ed arrivo al tempio dove vengo accolto* da una guardia sbigottita: se avessi percorso la strada principale mi avrebbero fatto lasciare la bicicletta a valle… oh, ciccio, ma che vuoi?
Il tipo mi lascia perdere. Visito brevemente il sito (in restauro) e scendo lungo un’altro sterrato da paura che zigzaga fino a valle, dove di immette al viale principale. Svolto a sinistra e poco più avanti raggiungo l’ingresso sud del complesso.
Basterebbe questo a svoltare la giornata, ma non è nulla in confronto con quello che trovo poco più di un chilometro più avanti: il tempio di Bayon, la perla mistica di Angkor Thom. Ovunque io volga lo sguardo scopro una quantità di enormi volti scolpiti nella pietra con la loro espressione placida e serena. La pietra è coperta da muschio (o muffa) che confonde le forme e cela i colori originali.
Questo posto è incredibile… ci sono qualcosa come 200 facce, alcune altre più di due metri, poste dappertutto. La struttura in sé è concepita in modo da amplificare la sensazione di essere in un luogo magico. La pianta del sito è regolare, ma i vari livelli si sovrappongono in modo da non permettere di orientarsi con scioltezza. Bisognerebbe visitarlo al mattino presto quando i turisti ancore non affollano ogni angolo della struttura. Ad ogni modo c’è da restare a bocca aperta.
Esco dal tempio e passo lungo una serie di altri siti (come ad esempio la “terrazza degli elefanti”), ma nessuno di questi mi convince a fermarmi per visitarlo. Gran parte dei siti sono un ammasso di pietre che sicuramente avranno una valenza archeologica e bla, ma non riescono ad attirare la mia attenzione… di certo non dopo il tempio di Bayon.
Esco dalla porta Est (Victory gate) e stavolta, invece dei faccioni rabbiosi della porta sud, trovo una serie di statue senza testa che sorreggono un corrimano di pietra. Superato il ponte scopro che il corrimano è un realtà un lunghissimo cobra con un mandala scolpito sul petto e le mani di alcune delle statue che confluiscono alla base del cobra.
Più avanti c’è il tempio di Te Prohm, uno dei più suggestivi di tutto il complesso. Anche questo è un restauro, ma solo un lato è stato completato dando così la possibilità di vedere la mole di lavoro che va nella conservazione dei siti. In una bacheca posta all’ingersso ci sono alcune fotografie che mostrano com’era prima dei lavori di recupero. Bastano quegli scatti a farmi capire quanto il costo del biglietto sia ragionevole in fondo.
La natura s’incastra nel tempio, si contorce, lo divelle, lo annienta. Un albero è cresciuto proprio a ridosso di un cortile interno ed ora s’innalza al di sopra del corridoio lungo il perimetro con le radici che lo avvolgono come tentacoli.
Gli alberi sono il pezzo forte del sito. Ce ne sono di tutti i tipi e forme. Alcuni sono di interesse botanico ed un cartello alla base ne indica la nomenclatura.
Ogni tanto sento il verso di alcuni pappagalli che volteggiano sopra le chiome degli alti alberi. Un suono in particolare si impone su tutti quanti… lo sentii per la prima volta a Cat Ba, in Vietnam. Sembrava il rumore intenso e continuo di una sega circolare e pensai che ci fossero dei lavori in corso da qualche parte che però non riuscivo a vedere. Quel suono in realtà lo fanno i grilli ed è così assurdo (anzi assordante) che l’ho voluto registrare:
È tardissimo. Il parco è già ufficialmente chiuso e i guardiani stanno aspettando che la gente esca dal tempio per spedirla in tuk-tuk a Siem Reap. Io non ho fretta, anzi! Questo è il mio ultimo giorno in Cambogia e anche di viaggio, se escludo il ritorno a Bangkok. Passeggio ancora un po’ tra le rovine ed esco quando il riverbero della luce del giorno trascorso è ormai così debole da non riuscire più a penetrare la vegetazione. Ormai non c’è più nessuno.
Ho con me una di quelle torce da campeggio che si mettono sulla fronte e la uso per illuminare la strada* davanti a me. Non sono ancora pronto per lasciare questo posto e corro verso l’ennesimo tempo, Banteay Kdei. Se vado dritto all’ingresso qualcuno mi rimbalza di sicuro… imbocco il sentiero sterrato che corre lungo il perimetro e trovo un ingresso secondario. Devo ammettere di avere un po’ paura di scontrarmi con qualche branco di scimmie o cose così. Ad ogni modo è notte e sto girando da solo nel tempio in mountain bike :))
Un corso d’acqua mi blocca e purtroppo devo tornare indietro, ma sono soddisfatto. La strada principale è un via vai di turisti che torna in città. Mi aggrappo ad un tuk-tuk e faccio il simpatico con le signore sedute dentro. Ad un certo punto vedo una sterrato illuminato da candele e torce conficcate nella terra. Mollo il tuk-tuk (spezzando il cuore delle signore) e controllo sul cellulare. Google maps dice che lì c’è un tempio (Prasat Kravan). Non mi resta molta energia, ma decido di dare comunque un’occhiata. Qualcuno ha organizzato un evento, forse un matrimonio, non lo so… quello che so è che questo tempio è un pacco e torno sulla strada principale. Provo a riacciuffare il tuk-tuk per farmi trascinare a casa, ma è troppo lontano. Ogni chilometro sembra misurarne dieci. Giro la torcia sulla nuca per farmi vedere dalle macchine che mi sorpassano ed raggiungo l’ostello allo stremo delle forze.
Faccio una doccia ed incontro Isabelle e Jimm [i due ciclisti che ho incontrato per la prima volta a Bai Xep e continuo ad incontrare ad oltranza] e provo a convincerli a mangiare insetti, ma loro fanno gli schizzinosi. Facciamo un giro a Siem Reap insieme e finiamo in un piccolo bar gestito da un fattone vestito come Jack Sparrow. Lui vuole essere chiamato Jack Sparrow e ci tiene a precisare che non è che lui sia strano, è che ha fumato troppa happy plant.
Giochiamo a Jenga e scopriamo che su ogni mattoncino qualcuno ha scritto una penitenza. Ballo con una sconosciuta al tavolo affianco, offro una sigaretta, da bere e torno all’ostello un attimo prima di svenire dalla stanchezza. Rubo un paio di Oreo lasciati impunemente da qualcuno in camerata e mi stendo sul letto. Ripenso alla lunga giornata piena di emozioni e mi addormento, esausto e soddisfatto.
CANZONE DEL GIORNO: Sun is Shining, Bob Marley