Polish

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Dovevo arrivare di mattina, ma Luis Con un Dente Solo, che fuma come un turco (e dopo 37 anni a Londra non parla un granché d’inglese) era da solo e con un bel problema. Così mi ha seguito per un’ora buona, ansimando perché io corro, non cammino, e i suoi polmoni non sono ovviamente un granché. Ha perfino aspettato che partissi col minibus, un furgoncino striminzito senza vano bagagli, per salutarmi e gesticolare che quei due soldi davvero me li restituirà. Li considero preventivamente persi, ma sarei contento, migliorerebbe le mie speranze verso il prossimo. 1-0 per l’umanità, a lui segnare il secondo.
Alla stazione di Oświeçim mi sbafo attento mezzo pollo, contro la sbornia di vodka. Alla signora al bancone debbo indicare quello che voglio e correggere il prezzo sulla calcolatrice, per farle capire la mancia, ma capisce cocacola. Mi viene da pensare al Brasile, che anche lì le mie amate bettole non mancano di certo!
La Polonia sembra un paese interessante da visitare e abbastanza economica e incasinata (componente indispensabile) per un viaggio avventuroso. Certo qui non c’è la samba e magari trenta gradi qui li raggiungono sotto lo zero, ma prendere un autobus, o trovare una sistemazione all’ultimo minuto e assolutamente fattibile. Non c’è la Cachaça, ma la vodka spacca. Ne ho comprare due bottiglie oggi, prima di prendere il bus per Berlino, Gorzka Żołądkowa, quella amara nella bottiglia gialla, da servire con soda e cetriolo immerso (grazie Gosia).

Non saprei dire se l’aria è pulita (o solo il fresco d’autunno, che qui è già arrivato), ma di certo molto, molto rilassante. Manca il frenetico rumore di fondo delle città, quella specie di crepitio che fanno le cassette nelle parti di silenzio.
La stazione è di un fatiscente unico, le macchine ed i camioncini, che circolano nel piazzale, di mai viste prima e un po’ sproporzionate, mi piacciono! Tutta roba saltata fuori dal blocco sovietico immagino.
Anya è cresciuta a dieci minuti a piedi da lì, in una delle innumerevoli case popolari d’architettura comunista, giganteschi blocchi grigi circondati d’erbaccia e con lo stucco che se ne viene, ma appena dentro scopro un altro mondo. In quelle case ci abita quel tipo di dignità che solo la miseria genera.

La mamma parla solo polacco, mi sorride cortese ogni volta che ci incrociamo, nel suo piccolo appartamento dal soffitto basso. Possiamo fare solo quello. Il salotto ha le pareti verniciate di verde e mobili d’altri tempi, i ritratti familiari sono piccole foto tessere in bianco e nero. In quei 30 metri quadri ci sono cresciuti lei, i tre figli ed il marito, che non c’è più se non in una foto più grande nella sua camera, dove stasera ci dormo io. Lei starà sul divano in salotto. “Ospitalità polacca” dice Anya. Ho imparato a dire grazie, buonanotte e buongiorno.

In un paese prima distrutto dalla guerra e poi abbandonato al suo destino, aver contato sulle proprie forze e sul lavoro collettivo è stato fondamentale, rendendo così la gente formalmente cordiale, ma anche attenta e un po’ riservata, ma molto, molto umana.

I fagiolini (conditi di pangrattato e contorno di polacchissime patate), che mangiamo attorno al tavolino basso davanti il divano, vengono dall’orto di una zia. Davy, il compagno inglese di Anya, dice che il marito gli ha fatto assaggiare la sua vodka fatta in casa, pura 92%. Seduto sulla poltrona, butta la testa all’indietro, apre la bocca a pesce ed emette un lunghissimo suono d’asfissia. Tira giù la testa, mi guarda e fa
– e poi ne ho bevuta un’altra.
Che tipo.

Abbiamo un po’ di tempo prima che tramonti il sole, Davy vuole andare al museo dell’olocausto. Ok, penso, m’accontento, che non mi va di ficcarmi nel campo di concentramento. Dieci minuti a piedi e siamo all’ingresso, dove scopro che il ‘museo’ È il maledetto campo di concentramento! Sono ad Auschwitz! Arbeit macht frei, sadici figli di puttana. Ogni Blocco è un memoriale a se, destinato ad una nazionalità o etnia deportata. Belga, Olandesi, Cechi, ecc. voglio vedere il blocco coi letti, ma già ci mandano via per chiudere, mannaggia.
Sulla via dell’uscita, entriamo come per caso in una costruzione isolata, fuori dal recinto dei Blocchi, logora e dal soffitto basso. Una stanza è la camera a gas, l’altra adiacente quella dei forni crematori. Ce ne sono due, muniti di carrello da far scorrere dentro insieme ai corpi. Il posto mi suggestiona come non mi sarei mai aspettato, almeno da uno come me ed esco poco dopo, un attimo prima dell’angoscia. Subito fuori, l’atmosfera silenziosa che fino ad un’ora prima mi era sembrata così pacifica, acquista tutt’altro significato.

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Il giorno dopo ci facciamo una bella camminata su per una montagna, vicino il confine con la Slovacchia, un pendio pazzesco dove si scia d’inverno. C’è anche la bambina di Anya e Davy, un amore di 14 mesi dagli occhi azzurri e un sorriso pieno di vita, awww! Davy se l’è caricata imbracata alla schiena per tutto il tempo! Quando torniamo a casa, ore dopo, crolliamo per la stanchezza! Sarà per un altro venerdì sera.

Stamattina, infine, mi hanno accompagnato alla stazione, non prima di aver salutato la mamma di Anya “Dziękuję! Dziękuję! Paaaaa”, che approfitta per regalarmi un sacchetto col pranzo! Panini imbustati uno ad uno, ognuno insieme ad un fazzoletto e una mela saporita. Torno a Cracovia in treno (che costa meno del minibus ed è ovviamente moooolto più spazioso. Non ferma al ‘museo’, ma dalla stazione sono 20 minuti a piedi, contro quasi due ore di viaggio comodo), perdo tempo su internet, gratis in stazione e mi sparo due film in autobus, questo prima di incontrare Thomas il polacco, capellone nerd con la chitarra elettrica che studia scienze informatiche. Un classico.
Arrivo all’una di notte, chissà se Rodrigo non si sveglia e mi lascia in strada stanotte.

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