Ulisse

È dall’inizio della pandemia che non scrivo una riga. Non che non ci siano stati drammi o altra roba succosa da raccontare, ero solo troppo stressato per riuscire a concentrarmi per farlo.
Adesso, seduto in un aereo diretto a Puerto Escondido, con maglietta puzzolente, costume da bagno, infradito e niente mutande, mi sembra di aver trovato il momento migliore per farlo.

Sono arrivato in Messico l’altro ieri dopo 17 ore d’aereo. Ho fatto tappa in Atlanta, ma siamo atterrati in ritardo, così ho saltato educatamente la fila e mi sono messo ad aspettare il mio turno al gabbiotto dell’immigrazione alle spalle di una tizia di colore. Indossava una maglietta bianca con strisce in filigrana d’argento, pantaloni a tre quarti aderenti, sandali, borsa rossa in similpelle ed altra roba di dubbio gusto, tipo moda contraffatta che non ci crede comunque nessuno.
L’ufficiale di frontiera le chiede il motivo della viaggio e lei risponde allegramente che ci è «venuta a fare un giro, hahaha»
«È dove dorme…» continua l’ufficiale «ha un indirizzo?»
«Oh, sto da amici, sì, hahaha»
Io mi metto una mano sulla fronte, ma vorrei darle un scappellotto, magari si sintonizza col mondo reale. Mentre tutti gli altri passeggeri scorrono oltre gli altri gabbiotti, mentre il mio volo è a mezz’ora dalla partenza, l’ufficiale alza la cornetta del telefono e chiama rinforzi.
Quando ormai convinto di aver perso il mio volo, il gabbiotto affianco si apre per miracolo.
«Vola in Messico?»
«Sissignore, tre settimane.»
«Vacanza?»
«Vacanza.»
«Viaggia da solo»
«Con un mio amico, lui è già lì da un paio di settimane.»
«Ah, e quanto tempo sta in Messico?» Oh, penso, è brava questa guardia, si fa ridare la stessa informazione due volte, così controlla che non sto improvvisando le risposte.
«Tre settimane.»
La guardia mi restituisce il passaporto e corro a prendere il treno per cambiare terminal. Ultima chiamata per il volo DL 1932.
Corro con i miei due zaini addosso, la mascherina contro il covid che non fa passare l’ossigeno ed un volo di dieci ore alle spalle che uuuhhhhhhh non ti dico che gioia. Appena mi siedo, suppongo di sudore e col fiatone, il capitano comunica che decolleremo con mezz’ora di ritardo e quasi mi viene da ridere.

Tra le mille cose che potrei raccontare e di cui non fregherebbe comunque a nessuno, c’è ne però una che merita, che poi è il motivo per la quale sono di nuovo in aereo invece che in spiaggia a Tulum. L’amico che mi aspettava a Cancun, Konrad, si è messo d’accordo pure con un altra persona che chiamerò Ulisse.

Ulisse parla a manetta in puro stile tedesco: dice delle cose, poi comincia a ripeterle nervosamente cambiando il modo in cui le dice. Poi le ripete ancora e ancora in un crescendo di agitazione, senza dare l’impressione di volere un risposta. Non capirò mai perché i tedeschi fanno così. Il tedesco è una lingua piuttosto precisa, forse quando usano l’inglese pensano di non poter essere capiti?
Comunque sia, Ulisse, a parte essere noioso come pochi, coglie solo alcune parole delle mie domande e da una risposta in base a quello che crede gli abbia domandato. Devo chiedergli le cose due volte.

Ieri Ulisse ci ha raccontato di questa tipa che si è portato a letto tre anni fa senza preservativo, perché «lei usava la pillola».
La tipa in realtà sperava di restare incinta per essere mantenuta.
«E tu che ne sai?»
«Oh…» Continua Ulisse. «Lei voleva incontrarsi in giorni precisi per via dell’ovulazione e dopo aver fatto sesso si rannicchiava di schiena sul letto con le gambe piegate sulla pancia»
un po’ come faceva la tizia nel film Il grande Lebowski per restare incinta del Drugo (segue fotografia).
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Ulisse continua e dice che le sta pagando gli alimenti da anni e che dovrà farlo fino a quando la bambina (che hanno effettivamente avuto) finirà gli studi.
«Ah, ma quindi siete ancora insieme?»
«Nooo…» mi fa Ulisse «lei vive in un’altra città»
«E non vedi tua figlia?»
«Un paio di volte l’anno. La mamma le ha insegnato a dire ‘Papa scemo’, ‘Papa scemo’»

Io resto basito che nemmeno Stanis di Boris. Konrad mi guarda e fa cenno di sì con la testa.
«Ah, ma te lo ha già raccontato?»
Ulisse gliel’ha raccontato appena si sono conosciuti, in un festival di musica elettronica, dove poi si sono anche messi d’accordo per fare le vacanze insieme.
Ulisse parla per ore dello stesso argomento. Mi dispiace tantissimo per lui e un po’ mi sale anche la rabbia per un sistema che sembra tutelare più le madri. In Germania, per dirne una, una donna che è restata incinta può nascondere la gravidanza al padre naturale e poi, quando la creatura nasce, obbligarlo a fare un test del DNA per poi procedere con la richiesta di alimenti. Se il presunto padre naturale si rende indisponibile per farsi prelevare un campione del DNA, le autorità vanno a prenderlo a suo padre.

Dato che ormai il tema della serata è questo, provo a lasciarmi coinvolgere e propongo ad Ulisse di creare un’organizzazione per sensibilizzare sull’argomento e smuovere le cose. Per esempio, la paternità dovrebbe essere obbligatoriamente controfirmata per legge entro i termini per l’aborto, in modo da mantenere il diritto della madre di portare a termine la gravidanza, dando però la possibilità al padre naturale di dire “io non sono d’accordo, se continui, diventa una tua responsabilità”.
Ulisse, nonostante sia molto coinvolto, non sembra interessato a passare all’azione. Insomma, lui vuole solo sfogarsi. Così passiamo il resto della serata a mangiare tacos e bere birra fino a collassare a letto. Quando prendo sonno Ulisse si sta ancora lamentando della tipa che lo ha inguaiato.

Stamattina, a colazione, Konrad ci dice di un po’ di casini che intanto stanno accadendo nel suo appartamento in condivisione, così cominciamo ad intrattenerci a vicenda con aneddoti sul tema. Ulisse ci ascolta per un po’, poi propone l’aneddoto di una tipa con la quale ha vissuto tempo fa.
«Sono partito per un mese e le ho chiesto tre cose…» Dice lui. «dai l’acqua alle piante, non disturbare i vicini e chiamami se hai bisogno di qualcosa. Quando sono tornato, le piante erano morte, ma fa niente… il problema erano gli allarmi antifumo. Sai, quando gli allarmi antifumo hanno la batteria scarica fanno un BIIIP fortissimo ogni tot di secondi. Questa tipa, invece di cambiare le batterie, li ha messi fuori al balcone! Le ho chiesto, per quanto tempo e oh, risponde lei, da tre settimane… e quel mese faceva un caldo pazzesco, forse 35 gradi, e tutti gli inquilini tenevano le finestre aperte e questi bip bip bip hanno disturbato tutti cioè, dico io, non potevi chiamarmi?!»
L’aneddoto, peraltro una grande storia, sarebbe finito, ma Ulisse lo cavalca per cominciare a parlare di quanto questa tipa fosse una coinquilina terribile. «Quando si è trasferita ha detto che il divano era scomodo, allora le ho proposto di dormire nel mio letto, giusto all’inizio. però poi lei non voleva lasciarmi tornare a dormire nel mio letto…»
«Scusa ma tu le affittavi il divano o una stanza?»
Ulisse, che come ho detto non ascolta davvero le domande, risponde una cosa del tipo «Si, ma il divano non è poi così scomodo.»
Konrad ed io ci scambiamo un’occhiata. Konrad ripete la domanda.
«Affittavi il divano, non una stanza?»
«È un’ottima domanda!» Dico a Konrad ridendo.
«Oh no, le affittavo una stanza!»
«E non c’è l’aveva un letto suo?»
Ulisse non ascolta nemmeno questa domanda. Farfuglia qualcosa poi continua a parlare.
«Una volta mi sono portato questa ragazza a casa e lei, oh, lei faceva un sacco di rumore!»
«perché faceva rumore?» Dico così per coglionarlo un po’, tanto lui non ascolta.
«E la tipa mi dice che le da fastidio che fa rumore così mi dice che quando questa viene glielo devo dire così va a stare dalla sua amica allora quando la ragazza viene di nuovo io glielo dico e lei va via e io la sto scopando sul divano [segue il tradizionale gesto dello scopare con le braccia che remano] e la tipa era andata via da un’ora che adesso sento qualcuno che prova ad aprire la porta di casa allora ci rivestiamo ero un po’ infastidito perché lei mi ha detto ha stava dalla sua ami ma tutto ok ok andiamo in camera mia e però lei torna con un tipo e se lo porta in camera sua io non dico niente però poi vado in bagno e il bagno è intasato c’è acqua a terra e non posso usarlo così le dico che non mi interessa chi ha fatto il casino in bagno ma lo deve rimettere a posto e lei lo rimette a posto però poi si intasa di nuovo e lei lo ha intasato tre volte che poi non so se l’ha intasato lei o il tipo che la stava scopando che poi lui penso che era un immigrato di non so dove che poi per me va bene però chissà da dove viene che lui però era pure un immigrato…»
«Oh!» L’interrompo io. «Ma noi dobbiamo lasciare la stanza, sono quasi le undici!»
Ci affrettiamo a liberare il tavolo con Ulisse che continua a parlare. Io lo ignoro alla grande così lui si concentra sul povero Konrad. Attraversiamo la strada e Konrad mi lancia un’occhiata disperata.

Oggi, in teoria, dovremmo andare insieme a Tulum, ma col piffero che mi rinchiudo in un appartamento con questo soggetto. Konrad, peraltro, non è nemmeno interessato ad andare a Tulum, perché ci è appena stato per quasi una settimana. Piuttosto, vorremmo andare in aereo nella regione di Oaxaca, o nel Chiapas, non importa davvero dove, basta che Ulisse non viene con noi. Konrad però non se la sente di scaricare Ulisse al primo giorno di viaggi.
«E che problema c’è! Corrado, ci penso io!»
Intanto Ulisse ci ha di nuovo trovato e ci pressa per affittare una stanza a Tulum.
Konrad, appurato che tocchi a me sganciare la zavorra, gli dice che prima dobbiamo parlare di una cosa. Ci sediamo insieme sui divanetti di fronte alla reception dell’ostello. Konrad abbozza qualcosa tipo «Ulisse, c’è qualcosa che ti vorremmo dire…» poi ruota la testa con calma e guarda me.
«oh, ok…» Dico un po’ impacciato. Certo che il tempo di prepararmi me lo poteva pure dare. «Ulisse… abbiamo l’impressione che non funzioniamo come gruppo. Forse è meglio se prendiamo strade separate per il resto del viaggio» Dico senza mezzi termini. Ulisse non sembra molto sorpreso, ci resta male, ma un po’ sembra abituato ad essere scaricato.
Konrad, che ha un cuore, si appresta a dire che è solo perché lui vuole esplorare Oaxaca e non vuole tornare a Tulum «altrimenti avremmo di certo continuato a viaggiare insieme!»
Io sgrano gli occhi, un po’ perché ho appena detto chiaro e tondo che è perché tra noi la cosa non funzia, poi perché se per caso Ulisse dice che pure lui vuole andare a Oaxaca, poi come la mettiamo?
Ulisse però non sembra considerare la cosa. Arriviamo persino a prendere la stessa circolare fino alla stazione degli autobus. Va da se che Corrado a Ulisse non l’ha più sentito.

[ ]

«Quand’ero in Francia mi sono rotto tutto quanto e ho dovuto fare la chirurgia. Al dottore gliel’ho chiesto… Dottore, questo significa che non potrò ballare la prossima settimana?»
«perché…» Replica il dottore. «lei è un ballerino?»
«Ma no, Dottore!» Esclama lui. «Sono un omosessuale!»
E si mette ad agitare le braccia a tempo di musica.

(così come me l’hanno raccontata)

Neukölln Neukölln

A lavoro c’ho questa tizia che me le strarompe. S’ammazza di lavoro, lei, così s’aspetta che facciamo tutti lo stesso. Pause pranzo al computer (risicate), scadenze pazze… che poi questa mette pure zizzania, fa dei casini allucinanti e poi tocca a me mettere tutto a posto. Insomma, diciamo che io ho ragione e lei ha torto, e andiamo avanti.

Ho appena finito una videochiamata con questa che bla bla bla e di nuovo a scassarmele che alla fine spingo la sedia all’indietro e, ok, qui ci vuole una pausa. Lavoro da casa per la metà del tempo, così a sto giro scendo in strada e mi faccio una bella passeggiata verso il chiosco del caffè. Aria fresca e buona, col covid che ha fermato fabbriche, macchine e aeroplani, un bel Sole e pure i passerotti che cinguettano.

Due chiacchiere inutili col tizio del chiosco e qui mi siedo dall’altra parte di un tavolo all’aperto con questa signorona grossissima. Ha i capelli biondi, ma sbiaditi e sfibrati, la pelle del volto rovinata e rossa. Si regge la testa con la mano e tra le dita tiene incastrata una sigaretta. le manca solo una bombola dell’ossigeno e sarebbe perfetta. Io di solito cerco di non notare troppo queste cose, ma qui gioco d’anticipo, perché la signorona è una stronza incredibile.
E infatti, si avvicina una mendicante e comincia la cantilena sugli spiccioli. Io non c’ho voglia di sentirmi tutto il disco, conservo pure un fondo di umanità, e le mollo una bella moneta pesante da un euro. La mendicante, una signora forse della stessa età della stronza, ma magra, rugosa e bruciata dal sole, s’attacca che vuole di più. Uh, me povera io da prego uh eccetera. No vabbé, ti ho mollato un euro, per oggi basta così, dai. La mendicante capisce e si sposta al tavolo alle mie spalle e qui la signorona mi lancia un commento dall’altra parte del tavolo.

Parla in tedesco duro e capisco solo qualche parola, tra cui Odbachlos (senza tetto), Finanzamt (l’ufficio delle tasse e dei sussidi) più qualche altra cagata.
Signora, dico io angelico, desideroso di finire la colazione in pace, avevo un euro… gliel’ho dato. Tutto qui. Ma la signorona non ci sta, rincara la dose, attacca in un rantolo di Ausländer (stranieri, ma nel senso di immigrati) e Ärme (poveri) e di nuovo Finanzamt Finanzamt Finanzamt.

Allora… signora, sto facendo colazione a quattro euro e passa per cornetto e cappuccino, c’ho in mano uno smartphone da cinquecento euro… glielo posso pure dare un euro a questa poveraccia. Non è che quella è diventata povera apposta per romperti le palle. Le dico tutto questo, a parte l’ultima, sperando che la stronza abbia di che riflettere (e di che vergognarsi) per lasciarmi in pace, ma niente… giù di nuovo col Finanzamt, coi sussidi, con gli immigrati di merda, al che ingollo il fondo del cappuccino, mi alzo e me ne vado con questa che ancora sta a parlare.

Ritorno sui miei passi, rintraccio Sole ed uccellini, bisognoso di un po’ di pace prima di ricominciare a ciucciarmi la stronza del lavoro. Sto attraversando un bel viale alberato, di quelli con le panchine, il parco giochi e il limite di trenta chilometri all’ora per le macchine, ma appena che metto il piede giù dal marciapiede mi vedo ‘sto macchinone che mi pianta il muso davanti e inchioda. Passo dall’altra parte e e lui c’ha pure il finestrino abbassato che vuole dirmi qualcosa. Io lo guardo allibito e il tizio mi fa Ah, Du hast keine Bremsen? (non ce li hai i freni?).
Ho già dato fondo alla pazienza con la stronza del bar che non mi va di spiegargli che io sono un pedone e lui è una merda, ma mi ritrovo a corto di parole. Agito la mano e mi limito a mandarlo a fare in culo (ha la macchina, fa presto ad andarci). Gli do le spalle e qui lo sento sbraitarmi da dietro Oh, fuck yooou! con enfasi.

Esplodo.

FUCK ME??? AH!? FUCK ME??? gli mollo un cazzotto sul finestrino semiabbassato che quasi glielo mando in pezzi. Voglio aprire lo sportello e strascinarlo fuori dalla macchina, ma lo sportello è chiuso, e allora giù a dare calci allo sportello. Salto dall’altra parte e gli prendo a cazzotti quella merda di macchina che questa comincia barcollare a destra e sinistra. Gli mollo un cazzotto al finestrino proprio dove c’ha la faccia, perché tu, oggi, paghi per tutti quanti.
ESCI DA QUESTA CAZZO DI MACCHINA!!! ESCI, OH ESCI PER FAVORE CHE TI DEVO AMMAZZARE! Provo l’altro sportello, ma il tipo sta barricato dentro. DU STUCKSCHEIßE HAST KEIN RESPEKT FÜR DIE FUßGÄNGER!!! UH!? Non mi riesce nemmeno di parlare in tedesco, ma col cavolo che gli parlo in italiano, così mischio il crucco con l’inglese. ESCI PORCA MADONNA, ESCI CHE TI DEVO AMMAZZARE! Sbatto entrambe le mani contro la macchina e il tipo dentro va nel pallone e non sa più che fare. FÄHR!!! GUIDA, FIGLIO DI PUTTANA, VATTENE! TI CI ACCARTOCCIO DENTRO A ‘STA MACCHINA DI MERDA, RAUS!!! e giù calci alla macchina. Riesco appena a non colpire il vetro troppo forte, che i finestrini con un pugno buono vanno in frantumi e poi per orgoglio sono costretto a tirarlo fuori dalla tana.
Il tizio fa scattare la macchina in avanti, ma si ferma un paio di metri più avanti, incerto, perché certa gente crede che seguire le regole significhi avere ragione e però anche avere diritto a comportarsi da stronzi.

Atterro un’ultima manata alla macchina, ma il momento è passato, così finisco di attraversare il marciapiede e riprendo a camminare evitando di incrociare lo sguardo dei passanti che si sono fermati a guardare la scena. Cammino spedito fino all’angolo e poi mi ricordo di voler camminare piano, di respirare. Sgombro la mente e mi sento bene… davvero, come se avessi appena mangiato qualcosa di squisito. Libero i polmoni, li ricarico di aria e sono di nuovo calmo. Torno su, mi ripeto alla scrivania e riprendo al giornata di lavoro, sereno. M’ha fatto proprio bene uscire a fare due passi.

Parola del giorno (de): Fußgänger (pedone)

Dear Facebook

What’s on your mind, asks Facebook.

Since you’re asked, oh dear, I’m pissed off. Not because of the rona, not because of the world. The world is doing just fine. I’m pissed off because I opened my heart and again someone trashed it lightly. I don’t know if I should just learn to let it go, to give in to a dimmed life, dimmed emotions, or… I don’t even know what anymore.
Some people are lazy, some other just afraid. Maybe I should just stop being afraid myself and let go. Let go of giving too much of a shit, too much of a fuck. Learning, finally, that love is just another responsibility to be dealt with, as anything else. What a tragedy, what a waste.
I’m tired and it’s a tiredness that comes from deep inside. Yet, I know that I’m better than all of this, better than getting carried away by trivialities, better than begging for crumbles.
I’m better than this, yet sometimes I feel so little I’d rather disappear.
Everything is to lose. What an irony. I guess I was careless of the only thing that matter: myself.

Let go

«That kid, Guy, he has a spark. He is a pure account man.»

«And what is that job all about?»

«I don’t know. It’s about listening to people and never saying what’s really on your mind.»

«No. It’s about letting things go so you can get what you want.»

Mad Men S03E06

Contrattempi e contratture

Mi raccomando…

– Mamma

Nei paesi in via di sviluppo il codice della strada rappresenta solo metà delle regole, l’altra metà è una serie di norme non scritte, nonché piene di eccezioni, alla quale bisogna adattarsi alla svelta. Ci sono regole da seguire con la testa e altre da seguire con la pancia.

In aggiunta al traffico, anche la condizione delle strade e dei mezzi che circolano deve essere presa in considerazione. Gli autobus, i camion, ma anche i mini-van esalano certe scure meccaniche che ogni volta che ne respiro una mi sembra di aver appena perso un anno di vita. Sorpassare i mezzi pesanti è pericoloso, ma guidarci dietro è tossico. Tanto vale godersi l’ebbrezza del rischio.

Oggi ho scoperto che i mezzi con cattiva manutenzione perdono olio, parecchio olio. La traiettoria di mille macchine e furgoni è una striscia nera sull’asfalto. La striscia indica la traiettoria migliore (comincia nel punto in cui danno gas) ma è anche bene starci alla larga.

Stò proprio scendendo i tornanti di Nuwara Eliya, verso Nanu Oya, una bella strada asfaltata, larga e non troppo in pendenza, quando a metà dell’ennesima svolta, quando sono già inclinato, mi trovo davanti una grossa chiazza di olio nero e viscido. Non sono nelle condizioni di fare nulla se non passarci sopra e scivolare rovinosamente a terra. Non stavo andando troppo veloce, ma anche solo a trenta all’ora un ginocchio a terra è un dolore che non ti dico. Una dozzina di passanti vengono ad aiutarmi. Sollevano la moto (liberandomi il piede) e mi aiutano a metterla sul ciglio della strada.
Un guidatore di Tuk-Tuk comincia a ripetere la parola ospedale ed è chiaro che mi ci porta lui. Piego la gamba e mi sembra che, escoriazioni a parte, non mi sia fatto niente di serio.
«Non credo di averne bisogno.»
Il guidatore, appurato che non prenderò il suo tuk-tuk, smette di preoccuparsi della mia salute e se ne va.
Un secondo cingalese mi chiede da dove vengo (ovviamente), poi mi dice:
«Ho guidato in Italia, in Francia… ma in Sri Lanka non guido!»
Ho fatto un po’ di danni alla moto: La leva del cambio è completamente storta ed è difficile cambiare marcia. Il paraurti del motore è visibilmente storto, così come quello a sinistra del manubrio.
Dopo qualche tentativo, il motore si accende e scendo fino al paese più vicino per disinfettarmi. Con me ho solo dell’alcool da farmacia che brucia da morire. Attorno a me si è già formato un nuovo gruppo di Cingalesi che ridono ogni volta che mi stropiccia la faccia in una smorfia di dolore. Fumo una sigaretta per calmare i nervi, poi scendo di altri venti chilometri per comprare tintura di iodo, garza e cerotti. Vorrei dell’antisettico in spray, ma è già da una settimana che lo cerco e ancora non lo trovo.

Ci sono due tipi di centauri, quelli che sono caduti e quelli che non sono caduti ancora.

– Detto popolare

Da Nanu Oya in poi, la strada è decisamente più trafficata delle altre e mi rendo conto che guido su una macchia d’olio lunga chilometri e chilometri. Ce n’è praticamente una ad ogni svolta. Procedo piano e di malumore… non tanto per essere caduto, ma perché adesso ho paura di cadere di nuovo e guido come un imbranato. I motorini mi suonano perché non sorpasso.

Ad ogni modo, le disavventure non sono di certo terminate. Batto il piede sul piccolo gradino della porta del bagno dell’ostello e l’alluce diventa blu nel punto più assurdo. Se prima era zoppo, adesso sono super zoppo.

Sulla strada per Polonnaruwa un insetto mi si schianta sulla faccia mentre sto andando a ottanta all’ora. Il vento lo tiene premuto nella piccola conca sotto all’occhio e devo usare la mano per liberarmene. L’insetto intanto mi infila il pungiglione proprio sotto la palpebra. Guido con un occhio strizzato per dieci chilometri, bestemmiando tutti i santi che conosco. É solo quando mi fermo che mi rendo conto di avere ancora il pungiglione nella carne.

Adesso che sono di nuovo in pianura la segnaletica si arricchisce di nuovi segnali. Sono tutti dei rombi gialli con una cornice nera, ma all’interno ci trovo la sagoma di un elefante, quella di un iguana… Dopo nemmeno un’ora ne vedo uno attraversare la trada. È lungo un metro e mezzo ed ha dei cerchi colorati sul dorso. Mi fermo per fargli una foto, ma lui si va a riparare in un campo di riso sgusciando via oltre il ciglio della strada.

La strada appartiene a qualunque cosa di muova. Mezzi, passanti, biciclette, ma anche e soprattutto cani. Dormono nel bel mezzo della corsia (perché l’asfalto è caldo) e sono così stupidamente tranquilli che alzano la testa solo se sentono che qualcuno gli sta passando troppo vicino. I cani che però mi fanno paura sono quelli che camminano proprio nel mezzo, perché sono imprevedibili. Rischio di metterne sotto almeno un paio; francamente ho più paura di cadere dalla moto che di ucciderli.

Il giorno dopo (“dopo” nel senso di dopo la fregatura di Polonnaruwa, un sito archeologico da venticinque dollari a ingresso) mi rendo conto che per cambiare le marce devo sollevare la gamba. All’inizio penso che si è allentata la leva del cambio, ma all’ennesima marcia devo sollevare la gamba di quasi dieci centimetri e la marcia ancora non entra! Guardo in basso e la leva è tutta penzoloni sotto al mio piede.
Merda: si è spezzato il supporto in pressofuso del cambio!
Resto bloccato in seconda, ma trovo un meccanico a pochi chilometri che mi salva la vita improvvisando un nuovo pezzo.
Mentre sono lì ad aspettare, chiacchiero con un Cingalese dall’inglese sciolto. Mi dice che siamo nel bel mezzo della riserva di Minneriya ed è pieno di elefanti selvatici.
«C’è una scorciatoia per Sigiriya…» Continua lui. «ma a quest’ora è pericoloso… gli elefanti si postano al tramonto e se sei troppo vicino fanno la carica.»
«Che faccio se me ne trovo uno davanti?»
Lui ride e fa il gesto di dare gas con il polso. «Però la strada è stretta, non puoi fare manovra.»
Insomma, se l’elefante mi trova sono fottuto.
«La strada normale andrà benissimo.» Concludo io. Spengo la sigaretta a terra e finalmente la moto è pronta. Il meccanico, a gesti, mi dice che devo cambiare il pezzo, che così non va bene. Lo ringrazio (ma gli darei un bacio in bocca) e riprendo la strada.
Google non sa niente degli elefanti selvatici, perché dopo nemmeno dieci minuti mi trovo in una strada stretta che attraversa la foresta: esattamente la strada che mi ha descritto il tipo di prima. Me ne accorgo troppo tardi e ormai ci sono dentro. Giuro, non ho mai guidato in un silenzio più religioso. Resto col fiato sospeso per venti minuti e ad ogni svolta ho l’impressione di vedere la sagoma di un elefante. Ho anche paura di sopravvivere e vederlo calpestare la motocicletta. Comunque… sono quasi arrivato a Sigiriya che vedo un ingorgo davanti a me. Tuk-tuk, scooter ed un paio di Jeep per il safari.
«Che succede?» Chiedo io.
«Elephants, Sir»
La gente paga un sacco di soldi per il safari. A me basta guidare al tramonto per vederli gratis, ma anche no, grazie. L’ingorgo si scioglie e finalmente arrivo all’ostello. Dormo in tenda, circondato dai mille rumori della foresta attorno a me. Sono super zoppo, ho un occhio gonfio e guido una moto che sta insieme con lo sputo, ma mi basta stendermi a letto, immerso in questi suoni, per ritrovare la pace.
Durante la notte, sento alcuni scrosci di pioggia, richiami misteriosi ed il ringhio del cane dell’ostello che tiene lontano chissà quali animali esotici.

LXXXV

Da un paio di settimane a questa parte, durante il mio primo viaggio in Sri Lanka, ho provato a scrivere dei posti che ho visitato, delle cose che ho visto. Gran parte di questo materiale, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di voglia, è morto in una bozza.

Spesso, quando ammiravo un paesaggio o la natura incredibile di quest’isola, mi sono tornati in mente i versi di una poesia di Tagore, LXXXV.

Chi sei tu, lettore, che leggerai le mie poesie
tra cento anni?
Non posso mandarti un solo fiore di questa ricca primavera,
né darti un solo raggio d’oro delle nuvole
che mi sovrastano.
Apri le tue porte, guardati intorno.
Nel tuo giardino in fiore cogli i fragranti ricordi
dei fiori sbocciati cento anni fa.
Nella gioia del tuo cuore che tu possa sentire
la vivente gioia che cantò, in un mattino di primavera,
mandando la sua voce lieta, attraverso cento anni.

E niente, mi andava di condividerli.